Il lamentoso, solito, cantilenare dell’italiano medio cinematografico (il quale, quasi quotidianamente accusa la settima arte nostrana di non essere più nel periodo dei suo fasti, sperticandosi in assurde invettive, evitando accuratamente di seguire il cinema di genere che lentamente tenta di rifiorire e buttandosi a capofitto nella visione delle solite pellicole hollywoodiane) dovrebbe prima o poi acquietarsi, e quale miglior incentivo se non questo secondo lavoro per il grande schermo del talentuoso Sollima? Suburra si inserisce prepotentemente nel filone del new-noir italiano, uno spaurito gruppo di pellicole (il cui numero si può contare, per il momento, sulla punta delle dita) alla ricerca di una narrazione costantemente ancorata alla realtà. Sollima, uno dei pochi figli d’arte italiani che onora legittimamente questa aggettivazione, continua un percorso che negli ultimi anni è stato solcato in maniera egregia da diverse cineasti: Munzi, Caligari, De Angelis, Alhaique sono solo alcuni dei nomi che con Sollima condividono il terreno di questa rinascita, creando opere meritevoli di attenzione ed elogi.
Suburra condivide con le pellicole di questi autori gli intenti registici e narrativi, l’incessante e quasi pressante necessità di mostrare ciò che di reale vi è al giorno d’oggi, il tentativo di trasporre sul grande schermo ciò che ci circonda privando la narrazione di inutili orpelli moralistici; il cinema italiano non è costituito solamente da commediole panettonistiche o psicodrammi al limite dell’irreale, può esserci ancora della linfa che nutra il cinema di genere dello stivale e questo Sollima sembra averlo ben compreso. Dal duemiladodici, quando esordì con la sua opera prima cinematografica (o dall’indimenticabile Romanzo Criminale televisivo, forse sarebbe meglio dire), l’autore ha sviluppato uno stile che trascina in una continua evoluzione migliorativa nelle sue pellicole, dando nuovamente valore all’utilizzo della camera a mano, del piano sequenza, osando nel mostrare laddove in pochi osano.
Roma non è più la stessa, per lo meno dalla sera in cui Filippo Malgradi (il solito, perfettamente in parte, Favino), politico dall’anima non proprio candida, si ritrova invischiato in una spiacevole situazione: dopo una notte movimentata, trascorsa in una stanza d’hotel con due escort, assiste alla morte per overdose di una delle due (minorenne, per non farsi mancar nulla) e tenta di rimediare, mettendo una pezza al buco che risulta essere molto più deleteria di ciò che si sarebbe potuto immaginare. Il corpo della ragazza verrà occultato da un amico (il migliore del lotto attoriale secondario, Giacomo Ferrara) dell’escort ancora in vita, il quale inizierà a imporre favori al politico che, stanco del pressing, cercherà una drastica soluzione al problema, dando origine ad un effetto domino senza pari che coinvolgerà il rispettatissimo Samurai, Numero 8 (più attento ai suoi affari che a Greta Scarano, la sua ragazza) e la famiglia gitana degli Anacleti.
Sullo sfondo della vicenda troviamo il rivoluzionario progetto Waterfront, il quale cambierà l’aspetto di Ostia, trasformandola nella tanto agognata (nella mente di Numero 8, la quale la immagina disegnandone i lineamenti su una vetrata, nella scena più riuscita del film) Las Vegas italiana. Le storie ed i personaggi si intrecciano in una trama arzigogolata, che prende spunto dall’omonimo libro di De Cataldo e Bonini, lasciando alcune vicende nel limbo della incredulità narrativa, costringendo lo spettatore a trattenersi a lungo in questo limbo per continuare la visione del film. Nella parte iniziale, ma sopratutto in quella finale di Suburra, la sceneggiatura mostra la corda e dimostra lacune che solamente la regia di Sollima, la splendida fotografia di Paolo Carnera (già all’opera su A.C.A.B. e Romanzo Criminale – La Serie) e le aderenti interpretazioni riescono abilmente a colmare.
La completezza registica di Sollima fa riflesso, come accaduto anche nelle opere precedenti, nelle interpretazioni. Si fatica a credere che l’Amendola di Suburra sia lo stesso di cui abbiamo visto le gesta attoriali nella fiction-soap di Mediaset, si guarda con infinito piacere all’utilizzo riuscitissimo di Antonello Fassari (altro proprietario dell’osteria Cesaroni, qui padre sull’orlo di una rottura, protagonista di una potentissima sequenza), si apprezza la bravura di un Elio Germano che ammanta il proprio personaggio di un’aura molto forte di credibilità. Trovare un attore fuori parte in questa pellicola è impossibile, trovarne anche solo uno la cui recitazione vacilli sarebbe impensabile.
Eppure qualcosa non permette di gridare al miracolo, al capolavoro, alla tanto ricercata perfezione. Forse alcune superfluità, forse alcune ingenuità di scrittura e montaggio che, però, vengono riequilibrate dal grande cast riunito da Sollima, dallo stile inconfondibile di uno dei migliori registi italiani del momento e da una fotografia che disegna una Roma costantemente invasa dall’acqua, un diluvio incessante che cerca metaforicamente di eliminare la melma che invade nella realtà (non solo cinematografica) la capitale italiana.
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