L’Halloween cinematografico solitamente coincide con i festeggiamenti del 31 Ottobre, non permettendosi mai di sforare oltre e giungere nei dintorni delle festività natalizie ma quest’anno, complice una gradevolissima sorpresa orrorifica, ha prolungato il proprio tempo di permanenza nelle sale permettendoci di apprezzare questo The Visit. Il cinema di genere si è basato da sempre su tòpoi e cliché del genere che ne hanno permesso una rapida identificazione agli occhi dello spettatore, oltre che causando una ripetitività ed una banalizzazione del genere stesso, tuttavia con l’avvento dei primi anni duemila una tecnica cinematografica ha introdotto una ventata di aria fresca, permettendo all’horror di distaccarsi dalla solita trama trita e ritrita e sviluppandosi maggiormente sull’accumulo tensivo e sull’approfondimento della psicologia di personaggi e villain: tale tecnica è il found footage movie (altrimenti detto mockumentary), figlia di un capostipite inimitabile e particolarmente truce del quale non ci resta che andar fieri per la nostra (e la sua) italianità, ovvero Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato. Questa particolare tecnica cinematografica si sviluppa con l’intento di cambiare radicalmente il punto di vista adottato dalla macchina da presa, caratterizzandolo di una maggiore presa emotiva grazie alla maggiore immedesimazione dello spettatore con i protagonisti della vicenda; il diretto pronipote del film di Deodato è The Blair Witch Project, altra sorpresa di inizio millennio, che con un abilissima campagna marketing e con un budget ai limiti del misero, porta a casa risultati sorprendenti al botteghino ed una pellicola che fa di un’atmosfera mai così rarefatta il suo punto di forza.
L’incredibile successo mosso dal film di Eduardo Sanchez & Daniel Myrick, oltre alla generazione di un passabile seguito che vorrebbe continuare la vicenda privandosi colpevolmente del suo mezzo espressivo originale, comporta la nascita di un filone ancora non esauritosi di pellicole che usano questo mezzo espressivo principalmente come abbattimento dei costi produttivi; un maestro in questo genere di pratiche è il produttore Jason Blum, la cui Blumhouse ha all’attivo una imperitura produzione di pellicole a bassissimo budget (solitamente inferiore ai 5 milioni di dollari, 10 per i seguiti ufficiali), molte delle quali sfruttano proprio questo abile stratagemma. Tra le numerose opere messe in piedi dallo studio di Blum troviamo la genesi del moderno mockumentary, ovvero quel Paranormal Activity che è stato in grado di fruttare oltre cento milioni di dollari, oltre che cinque seguiti ufficiali ed un paio di mediocri spin-off ed altri interessanti esperimenti come The Gallows – L’esecuzione, Unfriended e Area 51. Se lo stesso Spielberg ha contribuito alla campagna promozionale del primo capitolo della saga di punta della Blumhouse, definendo quel film come realmente terrificante, spesso le trame di tali film si assottigliano nel corso della sviluppo, mostrando un tessuto narrativo flebile e una solidità basato solamente sugli spauracchi. Ciò non avviene per The Visit, il quale può contare sulla forza registica di M.Night Shyamalan, grande cantastorie dell’orrore.
Rebecca e Tyler sono due fratelli che non hanno mai avuto la fortuna, almeno fino ad’ora, di conoscere i loro nonni, a causa di alcuni screzi avvenuti molti anni prima tra loro e la loro madre, la quale abbandonò la casa genitoriale in seguito ad un violento litigio i cui motivi sono loro ancora oscuri. La madre dei bambini approfitta di una gita in crociera con il suo nuovo fidanzato per far passare ai figli una settimana di svago in campagna, facendo loro conoscere i tanto desiderati nonni; dopo un viaggio in treno i due ragazzini si ritrovano faccia a faccia con Nana e Pop Pop, i soprannomi dati dai due alle anziane figure da poco conosciute, venendo accolti trionfalmente tra abbracci, dolcetti fatti in casa e un amore che da tempo non provavano sulla loro pelle. Tuttavia giorno dopo giorno i ragazzini iniziano ad assistere ad alcune stranezza di cui sono vittime i nonni, special modo durante le ore notturne; ai tentativi di nonno Pop di spiegare tali misteri con alcuni disturbi legati alla veneranda età di sua moglie, si affiancano poco edificanti comportamenti anche dello stesso uomo, lasciando i piccoli nel più completo sbigottimento. La ragazzina, dotata di una videocamera con cui desiderava intraprendere un discorso di tipo documentario atto a scardinare i lucchetti che bloccavano il dialogo tra madre e genitori con una serie di interviste proprio ai nonni, dapprima titubante, si convince su suggerimento del fratello delle stranezze che stanno accadendo e si decide a nascondere la camera per riprendere i loro spostamenti notturni. Forse, però, troppo tardi.
Shyamalan gioca con le corde della tensione, facendole vibrare a suon di silenzi e rumori inquietanti, senza lasciare nulla alla casualità che tanti danni ha fatto nel genere horror. Il gioco dell’accumulo funziona qui maggiormente che altrove, permettendo al film di crescere di intensità e di interesse nel corso della narrazione, andando a costruire una solida ossatura filmica in grado di reggere anche l’inaspettato twist finale; si, perchè Shyamalan, divenuto ormai famoso per l’inserimento all’interno delle proprie pellicole di finali inaspettati (basti pensare all’ormai celeberrimo Il Sesto Senso), conclude The Visit ribaltando completamente la visuale con cui abbiamo affrontato la proiezione, lasciandoci sbigottiti a tal punto da prendere atto del cambio di rotta ed affiancarci ai piccoli protagonisti nella lotta contro i loro nonni. Lo script realizzato da Shyamalan stesso ed in seguito proposto alla Blumhouse tratteggia dei personaggi che non sono monodimensionali, donando a ciascuno delle sfumature particolari che lo rendono unico ed evitando il solito tritacarne di characters che infarciscono le pellicole di genere con l’unico scopo di terminare in breve tempo la loro esistenza nel più truce delle modalità. Rebecca e Tyler sono antitetici tra loro ma allo stesso tempo l’uno non esisterebbe senza l’altro: la ragazza è sulla via della maturità adolescenziale, sicura di sè e premurosa mentre il bambino è spigliato, vivace e con il dono (forse sopravvalutato nella pellicola) del rap; entrambi, però, soffrono di disturbi legati all’assenza forzosa della figura paterna essendo la prima timorosa del riflesso della propria immagine sugli specchi mentre il secondo germofobico. La bravura di Shyamalan sceneggiatore e regista sta nel trasformare questi disturbi in veri e propri punti di forza del film, costringendo i due protagonisti a crescere affrontandoli e combattendoli.
Introducendo elementi provenienti anche da altre pellicole che sfruttano la medesima tecnica (pescando a piene mani, ad esempio, dalla saga ormai giunta al capolinea di Paranormal Activity, il cui ultimo capitolo non è nemmeno arrivato nelle sale italiane, come di consueto), il regista di Signs tratteggia un percorso che affronta numerose tappe obbligatorie, rendendosi similare ad un percorso di crescita individuale che in molti potrebbero affrontare in età adolescenziale: titubanza – conoscenza di una persona – conoscenza delle sue problematiche – ritrosia nel giudicarli tali ed infine tentativo di combatterli. Combattere i problemi altrui così come combattere i propri problemi, realizzando un percorso di formazione non dissimile a quello di opere letterarie come Il Giovane Salinger, declinato unicamente in un’ambientazione leggermente differente. Il percorso dei giovani protagonisti prevede anche un preventivo distacco dalla madre, che vediamo nelle prime scene in un interessante excursus interpretativo, in cui l’attrice Kathryn Hahn dimostra la propria estraneità a figure monodimensionali materne, lanciandosi poco prima del lascito filiare sul treno, in una girandola di emozioni che le permettono di trasformare un sorriso inviato ai propri figli in distacco per poi terminare con un pianto sommesso degno di menzione; questo stesso abbandono della figura materna che poi tornerà unicamente a fine pellicola (salvi sporadiche comparizioni via Skype) è un ulteriore elemento a conferma della deriva formativo-adolescenziale della pellicola.
I bambini si ritroveranno soli a dover affrontare le proprie problematiche (in questo caso due nonni che proprio cari non sembrerebbero) dovendo contare unicamente sulla forza delle loro menti, senza alcun aiuto esterno, così come la madre aveva fatto nel momento in cui era fuggita dalla casa paterna avviandosi verso la sua nuova vita. I nonni sono il secondo punto forte del film, dal momento che i due attori che li interpretano (Deanna Dunagan e Peter McRobbie, attori televisivamente navigati e davvero in gamba) donano loro un’aura talmente sinistra da risultare incredibilmente efficaci e spaventosamente verosimili. Proprio nella verosimiglianza dei loro comportamenti, abilmente ascritti a disturbi cognitivi di tarda età, sta la riuscita di tali personaggi, concludendo alla perfezione un quadro narrativo quanto mai efficace, segno evidente di una rinascita stilistica e contenutistica del geniale Shyamalan.
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