Tradizione cinefila tutta italiana è quella di ritrovarsi in massa all’uscita della solita commedia italiota o dell’ennesimo sequel di un remake di un sequel di saga, lasciando solamente briciole a piccoli capolavori che spesso si assopiscono nei bassi fondali delle classifiche di botteghino, accontentandosi di limitate release tecniche prive di qualsivoglia significato. Questa sorte, amarissima, non è pervenuta nel caso della nuova pellicola di Iñarritu, permettendole non solo di avere un cospicuo battage pubblicitario legato principalmente alla immensa perizia registica del messicano (già responsabile di altre perle come Biutiful e Birdman, tra gli altri) e alla presenza nel corpo attoriale del sempre osannato (forse troppo) Leonardo di Caprio. Revenant ha scalfito il podio settimanale divenuto ormai vetta impervia, grinfia da tempo del comico pugliese Zalone, insidiandovisi e realizzando una performance anomala per un film particolare come questo, lasciando intendere che, forse, i bei film sono ancora accolti positivamente dal pubblico italiano, complice il meritatissimo Oscar per la precedente opera del regista, quel Birdman che ha stravolto, per stile semplice ma al contempo ricercatissimo, le platee cinematografiche del globo intero; se in quel caso eravamo dinanzi ad uno straniamento del dramma, sconfinante nella commedia, con Revenant la materia lavorata in sede di sceneggiatura (a sua volta desunta dal romanzo omonimo di Michael Punke) è una moderna rivisitazione del western di frontiera, lontanissimo per ossatura e stile sia dai classici americani di Wayne e Ford che dai rivalutati spaghetti western (la sporca estetica di un Django qualunque è lontanissima anni luce dalla ricercata opulenza visiva di Iñarritu, quel fango non potrebbe mai sporcare un singolo fotogramma di questo regista).
Aria, terra, fuoco, acqua. Nell’ultima fatica cinematografica di Alejandro Gonzalez Iñarritu i quattro elementi sono le basi fondanti della struttura filmica, si susseguono l’uno dopo l’altro senza soluzione di continuità, si accavallano tra loro fino a creare connubi visivamente incredibili. I cieli cerulei fotografati da Emmanuel Lubezki (sue le altre incredibili performance fotografiche di Gravity e Birdman) si mescolano alle eteree albe nordamericane, intrecciandosi negli inerpicati intrighi di rami e foglie che si riversano in terra, una terra spesso funestata dal sangue, macchiata dalla neve, offerente rifugio ai protagonisti in assurdi incavi o strettoie, permettendone infine di terminare il proprio corso nel lento fluire dei corsi d’acqua montani irrorati di rosso cremisi (meravigliose le riprese subacquee, così lontane dai tentativi italiani di Sangue del mio Sangue di Bellocchio). Le scintille di fuoco che offrono l’apertura del film si stagliano nella notte a riscaldare i protagonisti della vicenda, offrono riparo dal freddo pungente dello scosceso territorio (il quale ha riservato non poche sorprese, e quasi nessuna positiva, al cast ed alla troupe) alla famiglia che Glass vedrà lentamente disintegrarsi sotto i suoi occhi. La ricerca di pelli e pellicce, i furti, le tribù locali Arikara e Pawnee sono necessari orpelli narrativi utili a trainare la vicenda ed ambientarla in una determinata situazione storica e geografica, permettendole di arrivare al suo apice nell’estenuante (solamente per Glass) incontro di Di Caprio con la femmina di grizzly; nel disperato tentativo di protezione dei suoi cuccioli, ritenuti in pericolo per la loro vicinanza all’armato Hugh, il grizzly devasta il corpo del protagonista, impedendogli di continuare la propria avanzata. Il ritrovamento del corpo, ancorato flebilmente a questo mondo per poco altro tempo, porta alla luce inquietanti quesiti nel gruppo di cui fa parte, il quale si interroga sulla necessità di trascinarsi dietro un così grande impedimento. La rivalsa non si farà, tuttavia, attendere.
L’estetica filmica adoperata da Iñarritu e dal suo fido direttore della fotografia crea un prodotto alternativo ai classici western, in cui i tòpoi classici appaiono tutti e chiaramente (il buono, il cattivo – un veramente meritevole di Oscar Tom Hardy, gli indiani, la spedizione/missione, il motivo scaturente la vendetta, la ricerca della vendetta) ma vengono stravolti poiché inseriti in un contesto totalmente estraneo alla cinematografia classica, solitamente costruita su set infangati, putridi di terra e feci, madidi di sangue, creando una sorta di fil rouge tra il classicismo del genere e la sua ennesima reinvenzione ventura (quel The Hateful Eight di Tarantino che della neve farà uno status symbol). Revenant è un viaggio di formazione al contrario, una involuzione comportamentale del protagonista che regredisce allo stato bestiale, ponendosi al pari di colui il quale lo ha privato dell’affetto, bestiale come gli unici essere a cui sarebbe destinata la sopravvivenza in un luogo tanto ostile. Fino a che punto può spingersi una vendetta? Park Chan-Wook sembrava avercelo mostrato con la sua trilogia e lo stesso Tarantino ne aveva fatto un duetto filmico (i capolavori citazionistici Kill Bill) di rara efficacia, tuttavia Iñarritu ne ridisegna i confini, spingendo il suo Hugh oltre le possibilità umane, lasciandolo sfidare i ghiacci, le intemperie, gli assalimenti, i ricordi e permettendo allo stesso personaggio di involvere verso il grado a cui solitamente vengono accomunati cattivi ed indiani in tale genere.
Le sequenze sono visivamente ineccepibili: non una sbavatura, non un elemento paesaggistico fuori posto all’interno dell’inquadratura, non un personaggio lasciato allo sbando di sè stesso e dello script. La macchina da presa si muove lentamente tra gli alti arbusti, striscia e sibila sulla terra innevata in carrellata, si incolla letteralmente ai corpi dei personaggi, si fa soggettiva degli stessi (creando un curioso parallelismo con in videogiochi di tipo sparatutto) ed infine si fa dinamica e a mano (rigorosamente bilanciata in steadycam) nelle scene più concitate, creando un intenso ed efficacissimo stile registico, attualmente unico nel panorama cinematografico mondiale. La mdp si avvicina ai volti, ne scruta le espressioni, segue i lenti ansimi del corpo inerme di Di Caprio, le frenetiche scene di aggressione sia umana che animale, volteggia verso l’alto al pari delle scintille in campo, sorvola i corsi acquatici e le discrete nevi corroborate dal sangue umano. Iñarritu, al pari di un Sorrentino o Fellini, sta lentamente sviluppando uno sguardo poetico sulla vicenda narrata, lambendo il territorio dell’inconscio meta-filmico che si mescola con l’irrazionale e con il visionario nelle brevi (e così orribilmente criticate) digressioni oniriche che accompagnano i suoi ancor più brevi riposi, lasciando intendere una sensibilità senza pari, come dimostra l’intensa scena in cui un Di Caprio, perfettamente in parte, piange sulle spoglie dell’ultimo affetto rimastogli, in cui la macchina da presa si avvicina al volto dell’attore sino a carpirne i respiri affannati, il tentativo di pianto, la rabbia nascente, la vendetta ventura.
La delicatezza, contrapposta alla brutale violenza (mai esibita in maniera voyeuristica), con cui Iñarritu affronta la vicenda si ripercuote anche nelle scelte più di decoupage tecnico, permettendo al montaggio di assecondare tale sensibilità con tagli quasi invisibili tra una scena e l’altra, con l’uso di dettagli paesaggistici a contorno delle varie sequenze e con inquadrature dalla lunghezza sostenuta (che hanno causato giudizi frettolosi di noia e bruttura filmica, nemmeno fossimo dinanzi ad un bianco e nero anni ’50 di stampo melò), necessarie data l’impronta volutamente biografica del film stesso, il quale tende ad accentrare la vicenda dalla seconda parte tutta intorno al personaggio di Glass, mostrandone una sorta di tour de force mitico in un paesaggio incontaminato (Sorrentino, con esiti altalenanti, ci era riuscito in This Must be the Place) in cui il gioco vale la candela e ad apprezzare il prodotto finale saranno coloro i quali si immedesimeranno nel protagonista e nella vicenda, lasciandosi alle spalle tecnologia e modernità, affrontando il freddo glaciale e proibitivo delle ambientazioni (che numerosissime defezioni hanno causato nella troupe), lasciandosi affascinare da tale ossessiva ricerca di vendetta e restando abbacinati da tale meraviglia paesaggistica. Il viaggiatore meno esperto lascerà la strada maestra e si avventurerà verso i soliti sentieri-scorciatoia, bannando la pellicola e brandendone ai quattro venti l’incapacità di suscitare la benché minima attenzione, dimenticandosi forse delle reali brutture che quotidianamente ingrassano le file ai multisala.
Il percorso di Hugh Glass inizia nella terra e termina nella terra, parte dalla notte e termina nella stessa. Il personaggio interpretato da Di Caprio, novello Gesù (come il look adottato sembra suggerire), compie un percorso che si vorrebbe di redenzione ma risulta essere l’opposto, benché affrontato in virtù di un atto di vituperio all’affetto umano senza pari; Glass muore, resuscita dalla terra (quella terra in cui viene sepolto e dalla quale riemerge prepotentemente), perdona chi non ha colpe redimendolo e si avvia verso la propria battaglia personale, un duello finale tipicamente western in cui l’amore per una persona cara vince sull’odio e sulla brutalità. Il percorso sarà illuminato da una “stella cometa”, la scia di fuoco di una stella cadente che appare nei primi fotogrammi iniziali e che sembra volersi affannosamente ricollegare al precedente Birdman, di cui la scia della cometa era l’emblema. Quasi a volerci mostrare il proprio cammino, a ricordarci “Ehi, sono sempre io. Vedete, anche se sarete sotterrati da cumuli di negatività e problemi, nella vostra vita potrete sempre resuscitare e combattere per essa. Non dimenticatelo mai.”
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