Supereroi ne abbiamo? Per decenni l’Italia ha risposto muovendo la testa in entrambi i lati, simulando una negazione troppo pesante da poter essere digerita dal pubblico cinefilo nostrano. Il susseguirsi di fan-movies ed opere affini realizzate da aficionados della serialità fumettistica, oltre ad un modestissimo numero di tentativi semi-fallimentari di dare l’avvio ad un genere troppo a lungo oppresso dall’ingombro della commedia, ha quasi costretto la nascita di un prodotto che potesse soddisfare i palati più esigenti degli amanti della china. Salvatores, che dalla sua ha avuto un ottimo finanziamento ed uno stile registico classico fuso alle novità della modernità cinematografica che ben si sarebbe potuto adattare, ha parzialmente fallito il proprio tentativo, lasciando il proprio personaggio imbrigliato in dinamiche drammatiche troppo italianistiche, zavorrandolo di orpelli di scrittura che ne hanno causato il rapido affondamento e l’impossibilità di un riconoscimento ufficiale di status come novità sul panorama cinecomics. Dalle ceneri di queste prove, anche autoriali, si è mosso Gabriele Mainetti, forte di un paio di corti dalle medesime tematiche in cui è riuscito a sdoganare sul suolo italico anche la figura di Lupin, umanizzandola con le fattezze di un adattissimo Valerio Mastrandrea, costruendosi con le proprie mani l’opera che avrebbe voluto realizzare da sempre, forte di un personaggio iconico in cui larga fetta del pubblico può identificarsi ed un villain unico nel suo genere.
Le ristrettezze di budget non sono sempre sinonimo di nefandezza, tutt’altro. Lungi dall’essere simile a tanti blasonati blockbuster in cui il green screen sembra il vero protagonista ed al contempo lontano dalle tristi vicissitudini filmiche che accadono all’interno di quella strana factory che prende il nome di “Asylum”, Lo Chiamavano Jeeg Robot riesce a ritagliarsi un ruolo tutto originale anche grazie ad una computer grafica non invasiva, capace di reinventarsi e trovare soluzioni per ovviare alla pochezza economica, in un susseguirsi di movimenti interni al fotogramma da fare invidia a numerose società di post-produzione (al timone dei visual effects troviamo il Luca Dalla Grotta già responsabile di pellicole come Dylan Dog: Vittima degli Eventi e La Grande Bellezza). Realizzare un’opera che cavalca l’onda del fantascientifico, privandola quasi del tutto di fondali elettronici e computer grafica massiva di scarsa resa sembra un’ardua impresa, ma Mainetti riesce ad alimentare il suo primo parto filmico con cibo di prima scelta, privilegiando una curatissima messa in scena e sviluppando un comparto di scrittura di rara efficacia, capace di impedire un rapido affossamento del ritmo durante le due ore di film.
Enzo Ceccotti è un ceffo di quelli nemmeno troppo pericolosi, un ladruncolo che in piena crisi cerca di barcamenarsi alla bell’e meglio in un mondo che sembra aver ripudiato. Recluso in casa trascorre le giornate tra decine di porno che si accatastano sul divano e pasti infantili a vasetti, rigorosamente gialli. La sua vita è scandita dagli sporadici colpi che mette a segno, con i quali riesce a ricavare un minimo rientro grazie alle rivendite che effettua presso Sergio, il suo vicino nonché facente parte della banda criminale gestita dallo Zingaro. Durante il tentativo di recupero di alcuni ovuli, Sergio perde la vita ed Enzo che era con lui si ritrova invischiato in una gabbia dalla quale provare ad uscire sarà un impresa. Alessia, la figlia di Sergio con problemi psichici ed un amore senza limiti per l’anime Jeeg Robot, si ritrova sola e dovrà aiutare Enzo a sfuggire dai personaggi che lo cercano, facendogli capire che, dopotutto, non è più solamente un essere umano. Lui ora è Jeeg.
L’ammirazione che il regista ha per il fumetto nipponico ed il mondo in animazione che gli gravita attorno trasuda in ogni fotogramma di questo film indipendente, prodotto dalla Goon di Mainetti stesso e da una Rai Cinema in gran rispolvero, pronta ad annoverare tra le sue file di acquisti anche film poco convenzionali come questo. La trama si arricchisce progressivamente, includendo nella narrazione personaggi che in altre mani sarebbero divenuti rapidamente delle macchiette, stereotipandoli e destereotipandoli, a partire dalla sgangherata gang napoletana con il sempre benvenuto Gennaro Esposito (Genny di Gomorra), passando per il villain (un iperbolico e come sempre perfettamente in parte Luca Marinelli, già visto in Non essere Cattivo) e terminando con Marcellone, il trans che sarà al centro della svolta narrativa finale e che sembra derivare direttamente dal recente filone di commedia drammatica italiana (un personaggio molto simile era presente in Gli ultimi saranno ultimi di Massimiliano Bruno). Santamaria ed il suo personaggio crescono nel corso della pellicola, sviluppano un’emotività prima repressa, mutano i propri gusti adattandosi a quelli della nuova coinquilina, quasi abbandonando l’adolescenza a lungo protrattasi per entrare, consapevolmente, nel mondo adulto, quel mondo che Enzo evitava sempre di incontrare (uscendo il meno possibile di casa, non interessandosi di cronaca e politica, odiando i notiziari giornalistici).
Oltre al supereroismo, che per la prima volta sembra far capolino nello stivale, sono numerose le tematiche affrontate coraggiosamente nel film, le quali si uniscono e creano un intreccio inedito per un genere come quello intrapreso da Mainetti. La vicenda della quale è protagonista Alessia, l’ingenua figlia di Sergio, velatamente mostrata e solamente suggerita allo spettatore, è indice di una sensibilità inusuale che ben si mescola al faceto. La costruzione del personaggio de “Lo Zingaro”, amante del pop italiano anni ’80 (protagonista di alcuni tra i siparietti meglio riusciti), ben si sposa alla visione fotografica di un D’Attanasio che prende di peso i colori vivaci presenti nel manga e li incolla sullo schermo, rendendo vivido il sogno cinefilo di una vita e lasciandoci immergere in una Roma che per l’ennesima volta si mostra in vesti completamente diverse da quelle di tanti altri registi, lasciando la possibilità a Mainetti di dare la propria impronta visiva alla caput mundi. Senza fretta la narrazione scorre fluida, tra movimenti registici sorprendenti ed una fotografia di rara efficacia, con uno script ineccepibile e personaggi che sono già cult (Lo Zingaro peraltro ha molti tratti caratteriali che ricordano il Joker di Ledger). Il secondo capitolo si avvicina sempre di più e con esso la sicurezza che è giunto il momento tanto atteso: i produttori iniziano ad osare ed i primi frutti possono essere colti.
Commenta per primo
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.