Dylan Dog 356 – La Macchina Umana

L’argomento trattato da Bilotta in questa nuova uscita mensile è di quelli che ci fanno tremare davvero: la banalità del quotidiano, l’orrore della vita di tutti i giorni che svanisce stritolata dalla inutile e spietata routine in cui siamo imprigionati. Un tema, questo, dylaniato fino al midollo, che fa parte imprescindibilmente della filosofia di Dylan Dog e della poetica del suo creatore, che ha fatto e fa spesso capolino in vari modi fra le righe (anzi fra le vignette), ad esempio incarnato in qualche comparsa o divagazione in stile “arabesco del destino” chiaverottiano. Ma Dylan Dog è l’ Indagatore dell’ incubo, e proprio per la natura del suo lavoro si è imbattuto in tantissimi incubi, ogni mese uno nuovo da trent’ anni; lui che vive continuamente fantastiche e spaventose avventure, può solo intuire l’orrore della vita di un impiegato del catasto consumata da ore di straordinari a riempire pratiche, tasse e rate da pagare, cene frugali prima di crollare a letto senza poter dedicare un minuto a se stesso. dyd356
Diciamo pure che l’arte e dunque quella narrativa sono un fatto di empatia: uno può essere felicemente impiegato al catasto e magari rimanere anche un po’ offeso da considerazioni del genere. Ma diamo per scontato (forse sbagliando) che chi ama Dylan Dog lo faccia sulla base di una condivisa sensibilità sclaviana che il terrore del quotidiano lo assurge a feticcio della Paura stessa e di fronte ad esso i mostri di inchiostro fanno una paura confortante, con la “p” minuscola, sono una romanticheria evasiva.
In ogni caso, dicevamo, Dylan è normalmente riguardato solo indirettamente da tutto ciò e rare, rarissime sono le occasioni in cui viene proiettato in prima persona in situazioni analoghe. Ci viene in mente la breve di Villa “L’ incubo dell’ indagatore” che propone con sagacia in poche pagine questo concetto.
Dunque, ecco che questo mese ci ritroviamo calati in una realtà kafkiana con venature fantozziane. Siamo nel tempio della Daydream, multinazionale consociata della Ghost Enterprise, e Dylan è costretto da vent’ anni ogni mattino a timbrare il cartellino e perdersi in un coacervo di scale, corridoi, uffici, colleghi e dirigenti senza volto, scrivanie e pratiche da sbrigare. Non mancano tutti i cliché del caso, compresa la segretaria acida che fa la spia se qualcuno si appisola anziché lavorare per compiacere i superiori e sperare in una promozione. Emerge qualche elemento di satira all’ italiana che però fa sorridere ben poco, perché prevale la percezione dell’ assurdità e della mancanza di senso. L’ atmosfera funziona, Dylan torna a casa mesto ed esausto sognando un’ altra vita in cui fa il detective privato come un eroe dei fumetti e quando si chiude la porta alle spalle è così sfinito e straniato da ridere di cuore alle battute di Groucho che lo fanno sentire a casa. A proposito di Groucho, gli intermezzi di cui è protagonista hanno un certo rilievo strutturale, non funzionano sempre benissimo ma suscitano interesse, così curiosamente segnati in alcuni istanti improvvisi da una malinconia strana e angosciosa che si manifesta in particolare mediante l’ idea di Groucho che tra una sparata e l’ altra recita passi tratti da testi di filosofia del lavoro.
Da subito iniziamo a farci domande su come sarà la trama: indagini, pedinamenti, sparatorie, zombi, colpi di scena… si crea una sospensione per cui ci si aspetta un ridimensionamento a standard classici che normalizzino la situazione dandoci delle spiegazioni compatibili col mondo che conosciamo, ma queste sono relegate a poche vignette sfuggenti e la situazione resta sostanzialmente statica, la sceneggiatura con fare dimesso ci trascina a piombo insieme a Dylan nel suo incubo che cresce intorno a lui imprigionandolo senza speranza. Lo fa forse con un eccesso di schematismo, sviluppando spunti non sempre originali (non è il caso della geniale finestra metafumettistica di pagina 59), ma in modo efficace.
E’ chiaro che una storia fondata su questo argomento per sua natura non può prescindere da forti dosi di retorica della schiavitù del lavoro, che per quanto ammortizzata da un incedere essenziale, laconicamente aforistico, freddo come il terrore che si vuole mostrare, si presenta inevitabilmente un poco politicizzato e con poco da offrire rispetto a quanto già detto negli ultimi due secoli. Ma dietro la solita critica al capitalismo che mette le risorse umane in un tritacarne con l’unico chiodo fisso della produzione forsennata, si può indovinare una lettura più profonda che parla di un sistema di valori di cui la multinazionale è solo una conseguenza. I dirigenti sono anch’essi semplici lavoratori che consentono l’ operatività di un modello sociale condiviso: il consumismo, il vero mostro della storia del mese, non sembra tanto descritto come un’ imposizione subliminale, ma piuttosto come qualcosa che è accettata e voluta poiché in esso l’ uomo ha trovato la risposta ad una crisi esistenziale ergendolo a proprio assoluto feticcio. Una società si basa su un insieme di valori condivisi da una maggioranza e le persone hanno scelto di accettarne di nuovi. Come dice un dipendente che è una sorta di disadattato, relegato in un ufficetto a non fare nulla, non licenziabile in quanto figlio di un potente avvocato, che è l’ unico ad avere coscienza dello squallore dello stato delle cose: “Una volta, le virtù erano: fedeltà, coraggio, saggezza, umiltà, cavalleria. Oggi le virtù sono: flessibilità, produttività, capacità di fare squadra, essere vincenti. Una volta c’ era l’ orgoglio… oggi c’ è l’ autostima”. Ma come se ne può uscire? Questo personaggio rappresenta l’ impotenza di quella minoranza che vuole ribellarsi ma non ne ha gli strumenti e finisce col vedere l’ unica soluzione nella violenza folle.
Il nostro giudizio è molto positivo ed è comprensibile che in molti questa storia abbia suscitato entusiasmo facendo comparire in forum e blog la parola capolavoro. Capolavoro? Forse no, se con ciò intendiamo una storia che sia rappresentativa del personaggio e del suo universo. Normalmente Dylan Dog trae spunto dai grandi temi filosofici utilizzandoli per confezionare racconti dell’ Indagatore dell’ incubo. Una storia come questa prende linfa dall’anima del personaggio ma ne oltrepassa le forme seriali e narrative e lo rende mero strumento, lo usa per consentire la rappresentazione dell’ analisi universale di un’ aspetto antropologico. Questo, forse, è il limite contingente che impedisce a questo ottimo numero di essere un capolavoro della serie.
Resta comunque una storia piena di orrore folgorante che lascia piena soddisfazione al termine della lettura, benchè con la coscienza che questo genere di racconti non può che essere un una tantum. Finora nel nuovo corso le cose migliori si sono viste in situazioni border line come questa, ai confini del metafumetto. Le storie belle stanno uscendo e il che fa capire che la strada giusta è lì, il Rrobe la sta imboccando. Però servono anche e soprattutto storie classiche che siano all’altezza di rilanciare il livello complessivo, che rinsaldino la serialità e diano consistenza ai nuovi comprimari e alla ingolfata continuity che si è voluta abbozzare, e quelle finora sono state piuttosto altalenanti o raramente entusiasmanti. Ma, insomma, ogni tanto lasciamo perdere questi discorsi e godiamoci una bella lettura se ne abbiamo la possibilità, una terribile e poco rassicurante storia di vero orrore.

Nessuno

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