Le bambole costituiscono quanto di più sinistro si possa inserire all’interno di un film dell’orrore per costruire una giusta atmosfera, una scappatoia che, assicurata alle giuste mani, riesce nell’intento sceneggiativo di atterrire e stringere lo spettatore nella morsa della poltroncina del cinema. La bambola assassina è solo uno dei felici esempi di questo filone, un prototipo dal quale sono poi figliati numerosissimi seguiti (alcuni di discutibile qualità), tanto da essere ultimamente rinverdito dalla presenza di un cospicuo numero di pellicole a tema. James Wan è il fiero paladino di un cinema ricco in marionette, bambole e sinistri manichini, porta sullo schermo quella che a suo dire è una delle sue paure infantili, riuscendo abilmente a coniugare una perfetta tecnica ad un racconto dal crescendo ansiogeno, lasciando a tali artefatti in ceramica il compito di scrutare e scuotere lo spettatore sin nelle viscere, spingendolo verso una tensione palpabile macchinata ad arte. Se con Dead Silence il regista malesiano ha realizzato forse un piccolo punto di arrivo per il proprio percorso registico, mettendo contemporaneamente a segno un altro colpo e alzando ulteriormente l’asticella qualitativa, con L’evocazione si è ritrovato faccia a faccia con una delle bambole meglio realizzate degli ultimi anni, tanto da venire ulteriormente sfruttata in una saga secondaria che ne riprende il nome (Annabelle, scadente filmicamente). Nel passato ci sono stati esempi celebri legati a tale sottogenere dell’horror, dal clown malefico del primo Poltergeist all’omino in triciclo usato da Jigsaw nella saga Saw (entrambi, in seguito, parodiati a dovere nella demenziale saga di Scary Movie), per finire con il pupazzo meccanico protagonista del capolavoro argentiano Profondo Rosso.
The Boy si inserisce all’interno di questo filone a pieno titolo, pur riuscendo nella curiosa impresa di infiltrarsi, al contempo, anche nello slasher movie puro sulla falsariga del carpenteriano Halloween. Il processo produttivo che funge da terreno di coltura per il film è con evidenza carente, un punto a suo sfavore viene anche dall’usura dell’elemento bambola e la “mise en scene” curata più del solito non porta altri frutti se non la curiosa sensazione di sbagliato. Il primo tempo scorre mestamente tra dialoghi aberranti per la loro pochezza e personaggi tratteggiati a grandi linee, privi di un reale spessore psicologico e di un volto che possa incutere il benché minimo timore. I due coniugi che si prendono cura di Brahms (il piccolo ascolta unicamente musica classica ad alto volume, ed il collegamento tra il suo nome e quello del celebre compositore era forzatamente stringente) paiono copie sbiadite di attori di ben altra fama, rassomigliandosi in lineamenti e acconciature a Michael Caine e Judi Dench, pur non avendo loro assorbito altro se non le sembianze fisiche. Il compito di trainare l’ormai esausto spettatore fino alla conclusione della pellicola tocca a Lauren Cohan, la donna che porta sulle sue spalle il peso di un inizio dimenticabilissimo oltrechè defilato, aiutata dall’uomo delle consegne nella propria lotta contro “il piccolo”.
Greta è una ragazza fragile e ferita che, dopo aver subito troppo a lungo una situazione squilibrata a suo sfavore, decide di trasferirsi in Inghilterra ed accettare un lavoro da bambinaia dalla famiglia degli Heelshire. La sinistra coppia di coniugi che l’accoglie si rivela morbosamente attaccata ad una bambola in scala umana, trattata dai due alla stregua di un figlio e costantemente cullata e riverita. Greta crede di essere l’unica a vedere in cattiva luce, o perlomeno con curiosità, tale rapporto, ma il sopraggiungere di Malcolm, ragazzo delle consegne e fornitore di alimenti della famiglia, serve a rafforzare tale tesi. I due anziani partono, lasciando il loro “bambino” sotto le cure materne di Greta, imponendole di sottostare ad un rigido codice pena il cattivo comportamento del bambino, che difatti si dimostrerà piuttosto capriccioso nei confronti dell’irrispettosa ragazza di città. Coadiuvata dalla sua nuova conoscenza, Greta si lascia andare e trascura il fantoccio tanto coccolato dall’anziana coppia, portando ad una serie di “sfortunati eventi” che la costringeranno a cambiare drasticamente il proprio comportamento, riallineandosi ai dettami dei due e costringendosi a trattare il pupazzo alla stregua di un vero figlio.
William Brent Bell, già all’opera su pellicole dell’orrore di carattere secondario, dimostra di possedere i rudimenti del mestiere soprattutto in campo visivo, dimenticandosi tuttavia di adoperarsi contemporaneamente anche sul fronte della creazione dell’atmosfera e della direzione degli attori. Se la protagonista fa il meglio che può, spinta a sguazzare in una sceneggiatura inizialmente infarcita di banalità e dialoghi dozzinali, i due anziani attori inficiano il tentativo di creare un minimo di tensione narrativa, entrando ed uscendo in brevissimo tempo dalla narrazione per lasciare campo libero al dicotomico rapporto vittima-carnefice tra Greta e la bambola. Se il makeup applicato al fantoccio è assente, elemento di forte rottura rispetto al passato, sminuendo la cupezza dello stesso, ugualmente non può dirsi degli effetti sonori, marchio di fabbrica del genere e qui utilizzati non a sproposito ma finemente dosati, quasi a voler creare quel minimo di atmosfera che fotografia e scenografia hanno fallito nel rendere. La luce invade l’enorme villa vanificandone la possibile valenza orrorifica, e Greta si barcamena tra luci sbagliate, una scenografia poco valorizzata ed un insieme di modus scribendi comuni e logori che potrebbero mandare all’aria quanto di buono accade nella parte finale.
Se l’incipit ed i minuti che ne seguono gridano vendetta allo sceneggiatore, sembra quasi che l’originalità e la creatività dello stesso siano sbucate fuori, all’improvviso, solamente nella stesura delle ultime pagine dello script. Perché The Boy, in fondo, può essere riassunto nell’unico, grande, coup de theatre finale che riesce a non far rimpiangere i suoi 90 minuti di visione, portandoci alla conoscenza di un’ottimamente costruita alternativa alla realtà a cui eravamo stati abituati per tutta la durata. Il bambino cercava solamente il calore famigliare, affetto la cui decadenza è ormai simboleggiata dal focolare spento nel camino non più utilizzato, un amore paterno e materno che sta pian piano dissolvendosi, eroso dal tempo e dai ricordi, quest’ultimi impossibili da cancellare.
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