L’afosa estate è ormai entrata nel vivo e le distribuzioni fanno incetta di opere di genere orrorifico rimaste stipate in magazzino durante le stagioni più fredde, pronte a far felici gli aficionados al primo solleone. Da sempre terreno fertile per le pellicole horror, in tempi di magri guadagni al botteghino nazionale, la bella stagione favorisce il sobbalzo sulla sedia nella frescura della climatizzazione dei multiplex, sport estivo per eccellenza tra gli amanti del genere. Tra i numerosi tentativi di trovare la giusta posizione nelle calorose poltrone del cinema ed un popcorn andato di traverso al momento sbagliato, le luci si spengono e lo schermo si opacizza; mai come in questo caso il blackout temporaneo dell’illuminazione della sala per favorire la proiezione ci viene a turbare, perché proprio di luci ed ombre vive Lights Out. Facendosi forza del credito di produttore di James Wan, il cui nome appare ingigantito su poster e trailer promozionali e ne aumenta l’importanza rispetto al reale ruolo ricoperto in sede di realizzazione, e proseguendo la scia del successo commerciale, oltreché di critica, ottenuto dal regista grazie alla saga di Conjuring, questa pellicola tratta da un cortometraggio dello stesso regista Sandberg (opportunamente annacquato per raggiungere i fatidici novanta minuti dallo sceneggiatore Heisserer, già autore per i remake di Nightmare e La Cosa) cerca una propria collocazione all’interno dello sterminato panorama del genere horror, trovando l’originalità unicamente in alcuni aspetti della confezione tecnica e relegando al ruolo di comprimario la fase di scrittura, ciò che in ogni horror che si rispetti dovrebbe essere il punto di forza.
Nell’incipit Paul si trova nel proprio ufficio, costretto dal lavoro a prendersi del tempo prima di tornare a rilassarsi con la propria famiglia. Passeggiando sovrappensiero, tra i manichini che popolano i sinistri e lugubri angoli del magazzino avverte una presenza, si addentra nell’ombra e subisce l’ira vendicativa di tale essere, pronto a scomparire alla prima luce. Tempo dopo la moglie di Paul, Sophie, fortemente depressa per l’accaduto, sembra aver intessuto un perverso legame con la stessa presenza, che la donna accoglie in casa propria come un’amica e che risponderebbe al nome di Diana. Costantemente sotto pressione e spesso preda di incubi notturni legati alla presenza, il piccolo Martin chiede aiuto alla sorella Rebecca, fuggita anni prima di casa per vivere lontana dalla madre psicologicamente instabile; sarà lei l’unico collante in una famiglia sul baratro della disperazione, dove la pazzia tenterà di sostituire la realtà con un’immaginazione terrificante.
Il cortometraggio omonimo da cui il film prende effettivamente vita è un brevissimo esperimento in cui sceneggiatura e regia sono ridotte all’osso ma, in quel minutaggio così scarno, si vengono a profilare i presupposti che faranno da fondamenta per il lungo; se la protagonista originaria replica quasi pedissequamente la scena cardine del corto nell’incipit di Lights Out, diventando personaggio secondario utile a comprendere il legame tra i due lavori, l’importanza data al fattore fotografico e il lavoro sul comparto sonoro si rinnovano nell’importanza, giungendo a piena maturazione sotto il controllo del produttore malese. Gli scricchiolii delle assi su cui si poggiano gli arti della creatura, le zone d’ombra in cui si annida Diana, il nastro adesivo come unico blocco al proliferare delle apparizioni causate dai momenti di buio sono elementi che ritornano frequentemente nella pellicola, sottolineando una struttura dello script fortemente debitrice all’originale, dal quale prova a distaccarsi con una storia che a lungo termine si dimostra priva di spunti realmente interessanti. L’idea di base è quantomeno curiosa e la creatura che appare sul far dell’oscurità sembra essere direttamente sorella di quel Freddy Krueger che abitava le insonne notti di Elm Street, ma al di là del citazionismo involontario resta, narrativamente, ben poco.
Complice una fotografia di incredibile spessore per una pellicola del genere, Rebecca si immerge con il proprio ragazzo in un viaggio senza ritorno, attraversando corridoi in cui trionfano i chiaroscuri, scendendo in una cantina dai toni bluastri, illuminata da fredde luci al neon, assopendosi al chiarore rossastro di una lampada d’altri tempi. Se sul lato attoriale si notano le buone performance della protagonista, la Teresa Palmer già apparsa nel bel Warm Bodies e nel mediocre sequel The Grudge 2, e quelle della madre, la regia resta costantemente ancorata ad un immobilismo di stampo tradizionale atipico in una produzione di Wan (la cui mano sembra essere invece presente nell’inquadratura iniziale, in cui la macchina da presa vortica in maniera insolita da un lampione al magazzino che sarà, di lì a poco, luogo di sventure per il proprietario), lasciando parlare la storia che, però, spesso ha quasi nulla da dire e si ripete stancamente per diverse sequenze. Le buone idee fortunatamente non mancano ed il finale (anche se di pre-finale dovremmo parlare, visto che l’effettivo finale è il tipico happy ending politically correct americano) può essere incluso tra queste, risultando un boccone difficile da digerire per tutti, ma d’impatto e ben congegnato.
Sandberg è ormai il benvenuto tra le braccia di James Wan, tanto che il regista gli ha già affidato il compito di risollevare le sorti della saga di Annabelle, spin-off della sua amata creatura L’Evocazione, donandogli l’arduo compito di realizzare un secondo capitolo che possa annullare quel pessimo, primo tentativo di far nuovamente cassa alle spalle dei Warren (a breve inizierà anche la produzione di un secondo arco di spin-off sulla macabra figura del demone-suora apparso in Conjuring 2). Non sappiamo se oserà registicamente piuttosto che restare ingabbiato nel rigido schematismo del cinema classico come in Lights Out, ma il dubbio che il problema legato alla scrittura verrà nuovamente alla luce è ben presente, dato che il copione sarà opera di Gary Dauberman, già sceneggiatore del primo, triste, Annabelle. Ed il circolo vizioso non si chiuderà facilmente, almeno finché Wan non abbandonerà la saga che gli ha dato prestigio e notorietà.
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