Da degli autori che probabilmente dormono abbracciati a Xenomorfi di peluche: una stazione spaziale internazionale recupera un rover in ritorno da Marte, contenente dei campioni di terreno da analizzare in cerca di forme di vita e “sorpresa sorpresa” ne trovano una, che si rivela ostile e fa un macello. Un concept già visto, certo, ma sempre intrigante per gli appassionati del genere, che tutto sommato nelle mani giuste non manca di potenziale. Io in particolare confidavo molto in Rhett Reese e Paul Wernick, già sceneggiatori di Zombieland e Deadpool (due film che ho amato), ma mi dispiace constatare che forse si addice loro più un ambito comico che drammatico.
Il film parte con un ottimo ritmo, si arriva subito al dunque senza inutili spiegoni di sorta e la curiosità viene mantenuta a livelli molto alti, ma già qui si comincia a percepire qualcosa che non va: gli astronauti, Roy in primis (Ryan Reynolds), si comportano in maniera poco credibile e professionale per degli scienziati di altissimo livello impegnati in una missione così delicata. Il primo pensiero di Roy non appena riusciti nell’impresa difficilissima di recuperare il rover al volo è dire al suo collega: “fai una foto per Instagram”… magari mi sono fatto io un’idea sbagliata sul comportamento degli astronauti al lavoro, ma magari buttarla meno in caciara in un film che vuole prevalentemente creare tensione non avrebbe fatto male. E poi, diamine, qui Reynolds mi ha ricordato troppo Deadpool, totalmente fuori contesto. I personaggi tendono a minare la credibilità del film per tutta la sua durata, adottando spesso comportamenti oggettivamente stupidi e pericolosi, nei confronti di quella che è una forma di vita completamente sconosciuta e potenzialmente mortale. Insomma, c’è un limite entro il quale si possono dare in pasto cazzate al pubblico.
Ciò non toglie che ci siano sequenze decisamente ottime. La tensione riesce a raggiungere picchi elevati in più punti, e ci sono almeno un paio di scene molto d’impatto da un punto di vista estetico.
Ad ogni modo tutta la prima parte di Life, quella che potremmo delineare dall’inizio fino alla fuga dell’alieno dal laboratorio, è molto valida, ma da qui in poi le cose cominciano a farsi più lente e banali. Il film ad un certo punto diventa una specie di ibrido tra Alien e Gravity, con contorno di stereotipi sci-fi, che si lascia indubbiamente guardare con piacere, ma sa davvero troppo di già visto, e presenta dei colpi di scena che telefonati è dir poco: va quasi tutto esattamente come ci si aspetta che vada. Il finale in particolare sembra voler essere chissà quale plot-twist, ma in realtà si capisce benissimo dieci minuti prima dove si andrà a parare, e per concludere la fiera degli stereotipi da thriller/horror, rimane aperto. Non capisco se l’intenzione fosse quella di tenersi aperta la strada per un sequel (improbabile) o più semplicemente lasciare il resto all’immaginazione dello spettatore, cosa che comunque non funziona, perché pure negli ultimi istanti accadono cose così idiote che il cervello decide di chiudere la questione lì e non interessarsi oltre.
Di solito ciò che mi affascina di più delle opere fantascientifiche sono soprattutto gli spunti di riflessione che riescono a mettere in campo, altra cosa che qui manca, o almeno, sembra esserci un messaggio di fondo fastidiosamente retrogrado (ma secondo me non intenzionale) secondo il quale faremmo meglio a farci gli affari nostri e smettere di cercare vita extra-terrestre.
La creatura aliena, che verrà chiamata “Calvin“, è molto interessante. Inizialmente viene presentata come una singola cellula “dormiente”, che in seguito agli stimoli degli scienziati si sveglierà e comincerà a duplicarsi e prendere forma, diventando nelle prime fasi simile a un incrocio tra un polpo e una medusa, descritto come “tutto muscoli, tutto occhi e tutto cervello”. Un essere di questo tipo ovviamente non può che rappresentare una minaccia per i protagonisti, e anche la spiegazione del perché lo sia è soddisfacente: semplicemente segue il suo istinto di sopravvivenza, ricercando costantemente nella stazione spaziale fonti di ossigeno, acqua e cibo.
Calvin tutto sommato è una delle cose che funzionano meglio in Life, peccato che la sua realizzazione non sia esattamente eccezionale: risulta troppo evidente il fatto che sia creato in CGI, e a parte qualche scena più convincente, a causa di questa sua natura palesemente finta non riesce ad incutere il dovuto timore, per quanto ci si sforzi di immedesimarsi e lasciarsi ingannare dall’atmosfera del film. In generale gli effetti visivi qui non sono granché e gli unici effetti davvero ben riusciti sono quelli che riguardano la mancanza di gravità.
Gli attori sono un altro punto forte del film, in particolare Jake Gyllenhaal e Rebecca Ferguson, ma la loro bravura purtroppo non riesce a compensare una scrittura dei personaggi prevalentemente scialba.
Life è un film complessivamente ben confezionato, che in fondo riesce ad intrattenere e in rare occasioni stupire, ma si lascia dimenticare subito. Ripropone cose già viste e straviste senza neanche rimescolare un po’ le carte in tavola, ed è di una prevedibilità disarmante. Se vi incuriosisce, vi consiglio di recuperarlo quando arriverà in TV o sulle principali piattaforme di streaming.
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