Era il 2015 quando venne annunciato per la prima volta We Happy Few, un titolo action survival indipendente, con punto forte l’ambientazione in una Inghilterra distopica degli anni ’60, dopo una rovinosa sconfitta durante la guerra contro la Germania. Gli sviluppatori, Compulsion Games, chiesero una mano per realizzare il progetto attraverso una raccolta fondi su Kickstarter e pochi mesi dopo venne rilasciata una prima versione in early access.
Visto che le premesse del gioco mi ispiravano non poco, decisi di provarlo immediatamente, ma purtroppo si rivelò abbastanza deludente: un survival sandbox puro come tanti altri, con forti difetti sul fronte gameplay. Nulla di imperdonabile per un gioco in accesso anticipato, capiamoci, ma molto del mio hype venne smorzato dal flop che allora rappresentava per me il titolo.
Di We Happy Few scomparve ogni traccia, piano piano iniziai perfino a scordarmi della sua esistenza, credendo che il progetto fosse naufragato, sommerso dalle critiche spietate di chi, come me, lo aveva provato e ne era rimasto deluso. Ma a distanza di due anni è arrivato un nuovo trailer, accompagnato dalla notizia che Microsoft aveva preso sotto la sua ala Compulsion, dando un contributo fondamentale alla realizzazione del gioco.
Gli sviluppatori per l’occasione rivelarono che il titolo aveva subito una repentina deriva di genere, basata su quanto appreso durante il rilascio della beta. Infatti i feedback evidenziarono come i giocatori fossero in gran parte più interessati agli aspetti narrativi che a quelli di puro gameplay, oltre ad essere terribilmente infastiditi dalla morte permanente dei personaggi dopo averli fatti sopravvivere con tanta fatica.
Tutto ciò mi rese tremendamente ansioso di poter finalmente rimettere le mani sul gioco che, nella sua nuova veste, iniziava a sembrarmi sempre di più un nuovo Bioshock, cioè un titolo con una forte impronta narrativa, che allo stesso tempo presenta un gameplay di natura action ben delineato.
We Happy Few è stato infine pubblicato nella sua versione definitiva durante l’agosto di quest’anno per Xbox One, PS4 e PC. Mi sono preso più di un mese di tempo prima di scrivere questa recensione proprio perché il mio intento era quello di essere più obiettivo possibile, evitando di farmi trasportare da gusti soggettivi e digerendo per bene quello che il gioco mi ha proposto durante le sue circa 15 ore di campagna. Durante questo mese quindi, oltre a portare sul nostro canale Twitch delle live dove insieme vivevamo parte della mia esperienza in blind, ho anche concluso il gioco per conto mio e fatto alcuni approfondimenti.
La storia, pilastro portante del titolo, si incentra sulle vicende di tre abitanti di Wellington Wells che cercano di fuggire dalla loro “ridente” città natale. L’Inghilterra, rimasta senza l’aiuto di America e Russia, è stata sconfitta dalla Germania al termine della Seconda Guerra Mondiale. Per sollevare l’umore degli abitanti e renderli felici è stata introdotta dal governo la Joy (tradotto in “Gioia” nella versione italiana), una droga sintetica che tutti i cittadini sono costretti a prendere per dimenticare il passato e le cose brutte della vita. Le avventure dei protagonisti si intrecceranno in diverse occasioni durante il corso degli eventi e il giocatore sarà chiamato ad assistere più volte, in panni differenti, a momenti focali della storia, approfondendo in maniera progressiva quel che accade durante gli 11 giorni in cui è ambientata la campagna.
La prima avventura che viviamo è quella di Arthur, un giovane giornalista addetto alla censura che improvvisamente, avendo sospeso l’uso della Joy, inizia a ricordare la terribile indennità che i tedeschi chiesero al termine della guerra e la sorte che toccò a suo fratello Percy e a molti altri bambini loro coetanei. Arthur quindi si inizierà a spostare di zona in zona per la città cercando un modo per, seppur troppo tardi, aiutare Percy.
Ogni personaggio che andremo ad impersonare avrà delle caratteristiche fisiche, uno stile di combattimento e un modo di agire unici: c’è ad esempio chi è più abile nel costruire oggetti, chi nel combattere e chi nel creare farmaci e medicine di ogni tipo. Il gioco presenta quindi una discreta varietà di approcci e di situazioni, permettendo al giocatore sia di non stancarsi con un gameplay monotono o ripetitivo, sia di “ruolare” con le diverse situazioni e problematiche tipiche di ciascun personaggio.
L’ambientazione, senza troppi giri di parole, è sensazionale, una continua gioia per gli occhi. Infatti la distopica città, oltre ad essere un tripudio di colori allucinati in linea con gli storici anni ’60 in cui è ambientata la vicenda, è soggetta a cambiamenti di luce in base allo stato psichico del nostro personaggio: i colori sono sgargianti e luminosissimi quando siamo sotto effetto della Joy mentre sono cupi e oscuri quando siamo in astinenza dalla droga sintetica. Ogni scorcio della città emana, con una sola parola, stile.
I ragazzi di Compulsion Games hanno dichiarato di essersi ispirati a grandi classici del genere distopico per la realizzazione del titolo: libri e film come Arancia Meccanica, Il Mondo Nuovo e 1984 sono stati alla base della creazione di Wellington Wells e dei suoi bislacchi abitanti. Uncle Jack, un ipnotico individuo che andrà in onda 24 ore su 24 sulle reti nazionali, è una palese citazione del Grande Fratello (il fatto che sia un attore in carne ed ossa ad impersonarlo, Julian Casey, la dice lunga); l’ambientazione del libro Arancia Meccanica verrà citata nel Garden District di We Happy Few e la colonna sonora del film di Kubrick la troveremo invece riarrangiata in alcune aree del gioco; il capolavoro di Huxley, forse il riferimento tenuto più in considerazione, viene riassunto sia dalla dipendenza cronica degli abitanti per droghe e alcolici, sia per il tipo di società puramente costruito sulla forma e privo di contenuti che il gioco presenta.
La colonna sonora è minimale ma incisiva con canzoni adatte, misurate e sempre toccanti in ogni momento della storia. Non siamo davanti ad un capolavoro, ma alcune tracce originali sono sicuramente memorabili, dimostrando così nel complesso una regia con basi solide, seppur ancora inesperta e con molte possibilità di miglioramento.
Mentre per il comparto artistico/narrativo reali pecche o mancanze non sono presenti, per quanto riguarda il gameplay la situazione cambia radicalmente. Il titolo presenta infatti numerosissimi bug e glitch che in molti casi inficiano la fruibilità del gioco con personaggi fluttuanti a mezz’aria, oggetti chiave che scompaiono, linee di dialogo confusionarie e con errori di localizzazione, input di comandi inspiegabilmente imprecisi e “ballerini”, fino ad arrivare a veri e propri crash.
La grafica dell’Unreal Engine 4 qui non fa sicuramente urlare al miracolo, con 30 fps scarsi e molto altalenanti su PS4 e caricamenti delle texture infiniti (più volte è capitato che pur essendo a pochi metri da alcuni muri questi risultassero ancora invisibili). L’intelligenza artificiale si attesta su livelli infimi, gli NPC passano dall’essere completamente indifferenti nei nostri confronti all’ostilità totale, spesso senza ragioni precise o per piccolissimi errori da parte di noi giocatori, dando il via ad un inseguimento di massa, con tutta la città che ci vuole morti perché, ad esempio, siamo stati qualche secondo in più del previsto a guardare un passante o abbiamo frugato nel cestino di un quartiere più snob di quanto sembrasse. Se gli NPC avessero reazioni meno spropositate ci sarebbero sicuramente meno game over frustanti.
L’assunzione della droga, oltre a cambiare l’aspetto del mondo circostante, modificherà anche il gameplay, non solo aiutando in alcune aree specifiche le nostre relazioni con gli NPC, ma aumentando anche la nostra resistenza in combattimento e durante la corsa. Come ogni sostanza stupefacente la Joy creerà in noi dipendenza al termine del suo effetto, causando negli altri abitanti e nei poliziotti risentimento nei nostri confronti con le modalità su indicate; soprattutto nelle prime ore di gioco, quando non avremo con noi una scorta di Joy sufficiente o un riparo dietro l’angolo, la tristezza dei nostri personaggi ci causerà molti malumori. Nella distopia di Compulsion Games TUTTI DEVONO ESSERE FELICI, ma forse si è esagerato un pelino.
We Happy Few non è riuscito a staccarsi del tutto dalla sua originale natura di survival, che ha lasciato delle cicatrici indelebili al suo interno. Il nostro avatar dovrà infatti mangiare, bere e dormire, tutte attività che ci distrarranno e ci allontaneranno inevitabilmente dal seguire la storia, risultando frustranti e per nulla intuitive in un mondo di gioco così strutturato. Allo stesso tempo avremo a disposizione un albero delle abilità che, tramite l’utilizzo di punti, ci permetterà di migliorare le prestazioni di ogni nostro protagonista migliorando le sue peculiari capacità. Alcune abilità sono molto più forti e utili rispetto ad altre, come quella di passare inosservati tra la folla evitando fastidi per i nostri “comportamenti bizzarri” o la capacità di aggirare il coprifuoco notturno senza che le guardie si insospettiscano, ma tutto sommato la varietà di personalizzazione dell’esperienza è notevole.
Il combat system è quello di un qualsiasi action stealth, con oggetti da lancio per distrarre gli avversari e prenderli alle spalle, mosse che li metteranno K.O. se presi alla sprovvista ed armi bianche nel caso in cui la situazione dovesse scaldarsi con combattimenti in mischia. Purtroppo il combattimento è molto rudimentale, con hitbox non proprio precisissime e nemici che non brillano per riflessi e strategia.
Dopo aver messo insieme così tanti difetti, ma anche così tanti pregi, tirare le somme per questo controverso titolo mi risulta difficile, soprattutto a livello oggettivo e imparziale, quindi mi limiterò a dire quello che We Happy Few è stato per me. Wellington Wells e i suoi abitanti mi hanno rapito il cuore, più volte mi sono commosso ed ho avuto i brividi durante l’esperienza e sicuramente rigiocherò più volte questo piccolo diamante grezzo. I suoi difetti di gameplay spero che vengano in parte risolti in seguito dalle patch e dai DLC che gli sviluppatori hanno promesso, e tutto sommato sono trascurabili da una persona disposta a godersi una bella storia ed uno straordinario intreccio narrativo. Era da Bioshock Infinite che il mercato videoludico non sfornava un titolo così profondo ed è un peccato che sia stato ignorato dai più.
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