In occasione dell’uscita de “La lingua del diavolo“, il fumettista Andrea Ferraris ha gentilmente accettato un’intervista da parte nostra, per parlarci in modo più approfondito della genesi di alcune sue opere, delle scelte grafiche contenute in esse e del panorama fumettistico attuale. Senza indugiare oltre, passiamo la parola al nostro ospite:
I viaggi che danno i natali ad opere di narrativa o a reportage spesso non sono casuali, qual è stata la scintilla che ha condotto lei e Renato Chiocca lungo il confine tra Messico e Stati Uniti?
Il mio libro precedente, Churubusco, raccontava un episodio della guerra tra Messico e Stati Uniti del 1846-48. Il consolato del Messico a Los Angeles mi invitò per una esposizione di tavole originali in occasione dell’anniversario di quella guerra. Mi sembrò una grande occasione per poter andare a vedere il tristemente famoso muro che divide Messico e Usa. In occasione del salone del libro di Torino ne parlai ad Igort che era in procinto di aprire una nuova casa editrice (Oblomov, ndr). Fu lui ad invitarmi a realizzare un reportage del viaggio lungo la frontiera.
Per me si trattava di un’esperienza nuova. Decisi di chiedere aiuto a Renato Chiocca, amico e regista, di cui avevo visto già due ottimi lavori, un documentario su Lorenzo Mattotti e uno sui cambiamenti in Tunisia dopo le primavere arabe. Parlammo con Tony Sandoval, un autore di fumetti messicano, nostro amico, che ci consigliò dì concentrare energie nella zona tra Tucson e Nogales. Una zona calda per il passaggio dei migranti verso gli USA.
Ne “La Cicatrice” sono presenti due storie, una legata più al Messico ed un’altra incentrata maggiormente sulla vita dei volontari statunitensi. Questa divisione della materia all’interno del libro riflette, in un certo senso, l’esperienza lungo il Muro?
C’è una ragione pratica. Sulla prima storia, quella messicana, cominciammo a lavorare prima della partenza. Si trattava di raccontare di un incidente avvenuto qualche anno prima proprio a Nogales, quando un agente statunitense che pattugliava il muro sparò diversi colpi verso due ragazzi, probabilmente corrieri della droga, colpendo invece un ragazzino di soli 16 anni che stava tornando a casa dopo una partita di basket con amici. Esisteva un articolo del New York Times, parlammo con il giornalista e con l’avvocato che difendeva il ragazzino. Io realizzai uno storyboard che poi misi alla prova sul campo. Con Renato andammo sul luogo della sparatoria e intervistammo diverse persone.
La seconda parte del libro nasce sul campo. Le associazioni di Tucson che aiutano i migranti ci invitarono a partecipare ad una delle loro spedizioni nel deserto. Portammo acqua e cibo nel tratto di deserto che, una volta superato il muro, i migranti devono percorrere per raggiungere qualche centro abitato.
La sua ultima fatica, “La lingua del diavolo“, racconta luoghi e tempi molto differenti: non più i deserti messicani odierni bensì le coste rocciose della Sicilia del 1831. Un sottile filo rosso sembra legare queste due opere, un’attenzione particolare per i territori rurali e per le popolazioni che vi abitano. Da cosa nasce questo interesse?
Intanto è giusto sapere che mio bisnonno era Siciliano. Di Sciacca per la precisione, dove appunto è ambientato La lingua del Diavolo. Partì in cerca di fortuna verso la Tunisia, un viaggio contrario a quello che altri compiono oggi. Mi è venuto spontaneo quindi calarmi nei panni di uno degli ultimi, un pescatore che, disperato, cerca in tutte le maniere di cambiare la sua situazione.
Deserto e costa rocciosa sono posti che, anche graficamente, rendono piuttosto bene la durezza delle vite che cerco di raccontare e mi permettono di trovare molti spunti visivi che aiutano il racconto emotivamente.
In questo libro, a differenza del precedente, il racconto storico lascia filtrare elementi fantastici, uno su tutti la storia dei fratelli Cavalca. A che si deve questa differente scelta?
La storia dei due fratelli è, in fondo, un tentativo di depistaggio. Il racconto parrebbe avere uno spunto melò, poi improvvisamente all’uscita dall’isola vira in altra direzione. Su questa base ho inserito i fatti storici. Questo mi permette un punto di vista meno didascalico e mi lascia lo spazio per delle improvvisazioni, come quella del pittore francese, realmente esistito, che immagino socialista.
Tanto “La Cicatrice” quanto “La lingua del diavolo” possono essere definiti “romanzi grafici” (o graphic novels), termine che a volte genera discussioni nel mondo del fumetto: alcuni vi associano un “imborghesimento” della Nona Arte e il conseguente allontanamento dalla popolarità originaria del medium, altri il meritato riconoscimento di quel pregio artistico rimasto sconosciuto per troppo tempo al grande pubblico. Trova che ci siano elementi di verità in queste opinioni o ha una linea di pensiero differente?
Ci sono fumetti buoni e altri meno riusciti. Questa è l’unica vera differenza che vedo.
Parlando di romanzi grafici, un tratto che spesso accomuna queste opere è l’uso del colore in ogni tavola, elemento assente nei suoi. Cosa l’ha spinta ad optare per il solo bianco e nero?
Feci diversi tentativi con Churubusco provando ad inserire il colore, senza successo. Il risultato era sempre piatto così come risultava banale il ripasso a china. Il deserto, la polvere, il calore arrivavano dal disegno a matita. Su quello ho deciso di concentrare gli sforzi. Ho cominciato a provare matite di durezze differenti e il loro effetti su carte più o meno ruvide. Il tipo di storie che racconto, almeno fino ad oggi, continuano ad essere adatte a quel tipo di stile, perciò continuo il percorso. Trovo che il risultato sia un bianco e nero “colorato“.
Prima di concludere, mi permetta di ringraziarla per l’attenzione dedicataci e di porle una domanda “di rito”: che consigli può dare ai nostri lettori che desiderino avventurarsi nella stesura di un graphic novel (e magari vederlo pubblicato)?
Ai ragazzi che vengono a mostrarmi i loro lavori dico sempre di guardarsi intorno; di raccontare le cose che vedono, le persone che incontrano. Di non perdersi in racconti che non conoscono, in faccende lontane da loro. Gli dico anche che il momento è favorevole. Ci sono moltissimi editori e, mi pare, c’è spazio per tante voci. Dico loro che è difficile farlo diventare un mestiere, ma che ci sono altri modi per guadagnare soldi.
Grazie a voi per lo spazio che ci avete concesso.
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