I Cavalieri dello Zodiaco hanno giocato una parte fondamentale nella mia cultura nerd: per quanto il continuo autocelebrarsi di Pegasus e il linguaggio aulico (all’epoca per me difficilmente comprensibile) mi abbiano più volte fatto alzare gli occhi al cielo, ero diventato un maestro nel dribblare ogni impegno scolastico o sociale per non perdermi una singola puntata.
Già il film del 2014 La leggenda del Grande Tempio, sebbene la grafica e il design delle armature avessero solleticato il mio fanciullino interiore, non era riuscito a restituirmi le stesse sensazioni, quindi potete capire benissimo che quando Netflix un paio di anni fa annunciò questa nuova serie in cgi basata sull’anime originale, il mio cuore saltò un battito: sarà l’ennesimo sfoggio di tecnica senza sostanza o finalmente stiamo per assistere alla rinascita dei Cavalieri?
Fin dalla prima puntata, la serie colpisce subito per l’importanza data al comparto grafico (non eccelso come quello del film ma comunque di un certo impatto). La storia riprende gli albori di Seiya da giovane orfano a Cavaliere di Pegaso, fino alla fine delle Guerre Galattiche.
A livello narrativo si può notare una certa frettolosità nella scrittura: le vicende sono condensate in una narrazione sì comprensibile, ma che i puristi troveranno sicuramente troppo sintetica e priva di alcuni punti chiave. Dopotutto si tratta di una prima stagione di sole 6 puntate, quindi è comprensibile la volontà di ridurre o modificare gli eventi in modo da fornire una versione più scorrevole agli spettatori neofiti.
La trama diverge totalmente dall’anime originale in alcuni aspetti fondamentali (l’antagonista principale e l’aspetto dei Black Saint), che però risultano comunque coerenti nell’insieme. Alcuni nomi dei cavalieri (almeno nella versione inglese) sono stati modificati: Ikki di Fenice è diventato Nero, Hyoga del Cigno è stato adattato con Magnus e Shiryu di Dragone si è visto chiamare Long. Anche il design delle armature differisce molto rispetto all’anime, mostrando delle Cloth avanzate rispetto a quelle classiche.
Parlando sempre di differenze con l’originale, una scelta che ha fatto discutere molto è stata quella di rendere Shun di Andromeda di sesso femminile, quando il fascino del personaggio stava proprio nella sua apparente fragilità androgina in un mondo di macho men in armatura. Questo cambiamento effettivamente va anche a minare quella che era la figura di Shun come cavaliere emotivo ed empatico ma dotato di un potere superiore a quello degli altri, nonché il suo legame con il fratello Ikki che viene trasformato nel classico rapporto fratellone iperprotettivo-sorellina debole.
Il doppiaggio italiano si avvale ancora una volta dei doppiatori storici della serie, tra cui Ivo De Palma per Pegasus, scelta che da un lato fa versare un lacrimuccia di nostalgia, ma che dall’altro va a stonare non poco, soprattutto nelle scene riguardanti la gioventù dei personaggi. Senza nulla togliere allo splendido lavoro fatto da De Palma & co. bisogna ammettere che ormai alcune voci sono troppo adulte e profonde per adattarsi a personaggi adolescenti.
Nonostante le molte critiche, stiamo parlando di una serie ancora agli inizi, che a parer mio offre delle premesse interessanti per il futuro (visto che già nelle prime puntate anticipa il resto della trama), e che è stata realizzata con l’evidente scopo di avvicinare un pubblico completamente nuovo, magari di giovanissimi, senza tener conto dei vecchi fan sfegatati per i quali può fungere solo da contentino.
Vedremo come Netflix porterà avanti questi neonati Cavalieri dello Zodiaco. Le perplessità non mancano, specialmente a causa della brevità della stagione, ma devo dire che è stato bello tornare per qualche istante bambino urlando “Fulmine di Pegasus!” davanti allo schermo.
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