Era il 1986 quando la DC Comics fece partire la pubblicazione di una miniserie a fumetti, Watchmen, scritta da Alan Moore e illustrata da Dave Gibbons. Dodici albi che cambiarono radicalmente il fumetto supereroistico e non.
Facciamo un salto di 32 anni – evitando abilmente la parentesi Snyder, regista di un film godibile ma sicuramente distante dalla vera essenza del fumetto – e arriviamo all’estate del 2018, quando HBO dà ufficialmente il via libera a Damon Lindelof per realizzare una serie tv su Watchmen.
Lindelof, oltre che grande fan dei fumetti supereroistici e dell’opera in questione, è tutt’altro che un signore qualunque. Nel suo curriculum ha infatti la co-creazione del fenomeno televisivo Lost e di The Leftovers (altro show HBO), serie, secondo il personalissimo gusto del sottoscritto, tra le più indefinibilmente belle che siano mai passate sugli schermi.
Il buon Damon si lancia nell’impresa ambiziosa di rimodellare del materiale con un’eredità ingombrante, causando per ovvi motivi più timori che curiosità nei confronti della serie; fortunatamente però ne esce vincitore. Lo showrunner infatti confeziona un prodotto spettacolare, non solo mantenendo lo spirito originale nel modo di rappresentare reali vigilanti mascherati, ma destreggiandosi senza problemi tra temi ereditati dal fumetto e nuovi, che una storia del genere porta inevitabilmente con sé.
La serie è ambientata 34 anni dopo il misterioso attacco del mollusco alieno, ma il focus si sposta a Tulsa, Oklahoma. Qui gli agenti di polizia operano a volto coperto per proteggere la propria identità dalla Settima Cavalleria, un’organizzazione terroristica di suprematisti bianchi (con la maschera di Rorschach al posto del cappuccio bianco) che nel natale del 2016 compì una strage ai danni delle forze di polizia, a causa di presunte ingiustizie sociali a danni dei bianchi.
Tra i protagonisti abbiamo proprio due sopravvissuti alla “Notte Bianca”: Angela Abar (interpretata dal premio Oscar Regina King), che in seguito a quell’evento ha abbandonato l’uniforme diventando il vigilante mascherato Sister Night, e Judd Crowford (interpretato da Don Johnson), il suo comandante, alla guida dei nuovi poliziotti-vigilanti.
In un Paese come gli USA, in cui il presidente Robert Redford cerca (con un consenso tutt’altro che diffuso) di rimediare alle passate discriminazioni razziali, in special modo in una città dove tali discriminazioni sono ancora ben radicate nella memoria dei cittadini, seguiremo lo scontro tra le forze di polizia e i suprematisti.
La serie non parte a mille, ma parte bene, solida, anche se piuttosto slegata dalle vicende e dai personaggi di Moore e Gibbons. Una volta che si arriva alla quinta puntata, però, si ha il vero decollo. Abbiamo puntate tecnicamente magnifiche, in grado di raccontare storie col solo uso del colore o con il montaggio, e nelle quali la sceneggiatura e la scrittura dei personaggi raggiungono vette incredibili, a riprova di quanto, pur azzardando e giocando pericolosamente con il materiale originale, Lindelof ami Watchmen.
Il comparto tecnico, come accennavo, non è da sottovalutare, e se sorvoliamo su degli effetti speciali che risentono del budget non hollywoodiano, possiamo godere delle altre qualità. Una su tutte è l’incredibile lavoro di Trent Reznor (frontman dei Nine Inch Nails) e Atticus Ross alle musiche: la coppia, già premio Oscar nel 2011 per la soundtrack di The Social Network, riconferma il suo talento creando una colonna sonora ansiogena e straniante, e regalandoci una versione di Life on Mars da brividi.
L’aspetto che però mi ha fatto veramente apprezzare la serie, tipico anche di The Leftovers e – alcune puntate di – Lost, è ciò che riesce a creare grazie alla combinazione di un’attenta scrittura e un’altrettanto valida messa in scena. È la sensazione di mistica potenza visiva, l’atmosfera quasi onirica in cui momenti spiazzanti e probabilmente privi di una conclamata spiegazione, splendide “pistole di Cechov” (l’espediente narrativo in cui un oggetto mostrato nella scena uno torna nella scena tre) che danno al racconto un nuovo senso e un forte simbolismo, creano un viaggio in una realtà al tempo stesso distante e vicinissima alla nostra.
Soprattutto, questo viaggio dimostra di non essere fine a se stesso, proponendo ed ampliando concetti profondi (e impossibili ora da sviscerare a dovere), come la questione del razzismo ancora troppo radicato nella nostra società, affrontata in maniera tutt’altro che banale, o il concetto del bello, dell’importanza di avere uno scopo nella vita, di cosa sia davvero la giustizia o ancora del divino, del rapporto con esso e cosa voglia dire sapere che un dio esiste ed è su Marte. Nonostante alcune questioni fossero già state affrontate da Moore, sono argomenti immensi, sempre attuali e che possono ancora conquistarci.
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