Andando in totale controtendenza rispetto alla politica del suo diretto concorrente, Amazon prime Video ci ha mostrato, fin dalla sua nascita, di puntare molto di più sulla qualità dei propri prodotti originali piuttosto che sulla morbosa quantità. Produzioni come The Man in the High Castle, Good Omens o The Boys hanno decretato, almeno secondo me, la totale supremazia della piattaforma Amazon su Netflix, che pur avendo serie di altissimo livello (vedasi Dark), finisce fin troppo spesso nella sovrapproduzione di serie di scarsa qualità solo per fare numero nel catalogo, all’unico fine di accumulare visualizzazioni.
Tales from the Loop, come tutte le serie originali Amazon, si distingue per un approccio assolutamente originale e se vogliamo, volutamente più “hipster”, andando ad adattare per la televisione il libro omonimo di Simon Stålenhag, la cui caratteristica peculiare è quella di essere principalmente un artbook concettuale, privo di testi, con sole illustrazioni collegate tra loro dallo stesso contesto. Il produttore Matt Reeves, l’ideatore della serie, ha affidato la scrittura di tutti gli episodi a Nathaniel Halpern, sceneggiatore della serie “Legion”, andando invece a scegliere registi diversi, tra cui spicca anche Jodie Foster per l’ultima puntata.
Il progetto si pone come una serie antologica in maniera atipica, andando a creare sì una storia diversa ed autoconclusiva per ogni episodio, ma mantenendo, oltre all’ambientazione, una certa successione degli eventi; molto spesso infatti, personaggi secondari della puntata precedente diventeranno protagonisti della successiva, così come le conseguenze di una puntata saranno esplorate secondariamente nelle successive, andando a gestire una narrativa molto particolare.
Mantenendo intatte le atmosfere dell’opera originale, Tales from the Loop sposta l’ambientazione dalla Svezia ad una cittadina inventata nel cuore delle campagne dell’Ohio, nella quale un fantascientifico laboratorio di ricerca sotterraneo, il Loop, è stato installato negli anni ’60. Le varie storie degli abitanti di questo paesino si muoveranno appunto tra gli anni ’60 e ’80 di questo novecento “retrofuturistico” molto ispirato e dai paesaggi sognanti e nostalgici.
È proprio la nostalgia uno dei temi portanti di tutta la serie, essendo questa una fantascienza molto più intimista, Tarkovskijana (nell’episodio 4 è presente una palese citazione a “Lo Specchio”), in cui l’elemento fantascientifico è solo un pretesto per raccontare le emozioni umane in contesti diversi, andando a toccare temi come la vecchiaia, l’amore, l’innocenza della gioventù o l’identità con una delicatezza e dolcezza davvero rare per la televisione moderna. Proprio per questo il ritmo degli episodi è volutamente dilatato, con inquadrature lunghe (e bellissime) e pochi dialoghi, in alcune puntate probabilmente non si superano le 10 frasi totali in 50 minuti.
Tutto ciò dona agli episodi un mood contemplativo perfetto, complici anche le perfette musiche del compositore Philip Glass, un maestro nel suscitare emozioni anche con pochi strumenti, scelta affine alla costruzione minimale delle scene.
Un grande pregio di Tales from the Loop è sicuramente la significatività degli episodi, che dopo il primo, il più introduttivo e probabilmente il più debole della serie, regalano grandissimi momenti empatici per tutti i gusti, riuscendo a toccare le corde anche degli animi più duri, soprattutto nell’episodio 4, a mio parere il picco più alto dell’intera produzione, che vede protagonista un Jonathan Pryce in formissima.
Molte persone abituate a visioni più leggere potrebbero essere spaventate ed annoiate dai ritmi estremamente lenti e la presenza di dialoghi ridotti, ma il target della serie è volutamente ridotto ad una “nicchia” per proporre un prodotto assolutamente originale che aspetta di esser scoperto poco alla volta, senza finire nel baratro del binge watching che potrebbe farla risultare solo ridondante. Tales from the Loop va gustata a piccoli sorsi, lasciandosi immergere in un mondo rarefatto e sognante.
Dietro le quinte:
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