Troppo spesso si sente dire che Netflix ha ucciso il cinema e che le piattaforme di streaming sono una minaccia per la vera settima arte. Personalmente non penso sia così e a sostegno della tesi che invece spesso sono proprio le aziende come quella di Reed Hastings a permetterci di avere opere profonde e indubbiamente “artistiche” basta un nome: Charlie Kaufman.
Kaufman è uno sceneggiatore e regista americano, celebre per aver scritto pellicole come Essere John Malkovich, Eternal Sunshine of Spotless Mind (che gli valse un Oscar) e Synecdoche, New York, con cui esordì alla regia. È facile notare però che nonostante sia l’autore, tra i vari lavori, di una delle storie d’amore più belle e universalmente apprezzate da critica e pubblico, Kaufman non lavora quanto merita. Il suo genio creativo è stato talmente poco sostenuto negli anni che per la produzione di Anomalisa, film in stop-motion del 2015 da lui scritto e diretto e con cui vinse il Leone d’argento a Venezia, si affidò ad una campagna di crowfunding.
Arriviamo quindi al perché Netflix è tutt’altro che una minaccia per l’arte cinematografica: sto pensando di finirla qui (in originale i’m thinking of ending things), ultima fatica del nostro amato Charlie, tratta dall’omonimo romanzo di Ian Reid e distribuita in streaming a livello internazionale dal 4 settembre. Un lavoro del genere, molto personale, non pensato per accontentare tutti e totalmente basato sulla visione che ha Kaufman di fare film, non avrebbe mai ricevuto una distribuzione nelle sale cinematografiche, e sarebbe stata una grande perdita.
La trama è piuttosto semplice: Jake (Jesse Plemons) porta la sua ragazza (Jessie Buckley) a conoscere i suoi genitori (Toni Collette e David Thewlis), i quali vivono in un’innevata fattoria dispersa nel nulla. Le riflessioni della protagonista unite ad una realtà sempre meno comprensibile trasformeranno una tranquilla visita ai suoceri in quello che si può definire un thriller psicologico, per quanto le opere di Kaufman difficilmente si incasellino in un solo genere.
Per potermi concedere in seguito ad un misurato sproloquio adorante, partiamo con quelli che le malelingue additerebbero come difetti. Ne Il ladro di orchidee (in originale Adaptation) Kaufman mostra come il suo processo di adattamento di un romanzo sia estremamente travagliato (al punto che il film non è la trasposizione del romanzo, ma la storia dei tentativi di trasposizione) e qui conferma questa sua “difficoltà”, andando a sostituire parti del romanzo esplicative con scene che insistono sull’effetto straniante e basando passaggi chiave su citazioni che (specie in Italia) difficilmente vengono colte, ma che comunque non complicano la piena fruizione dell’opera.
Parlando più in generale, la poetica di Kaufman invita, se non obbliga, lo spettatore a lasciarsi trasportare dal film, a non cercare di risolvere ogni particolare della messa in scena (dal momento che siamo in periodo, il contrario dell’approccio che si avrebbe con Tenet) e questo non è, comprensibilmente, un atteggiamento universale, come non lo è l’estrema analisi.
Affrontati i “difetti” (che poi tali non sono), ora posso dilungarmi su quanto di bello c’è in questi 134 minuti di neve, genitori inquietanti e bidelli liceali, in primis gli attori. Jessie Buckley, recentemente vista nei panni della coraggiosa moglie di uno dei tanti pompieri che operarono a Chernobyl, nell’omonima miniserie HBO, ci trascina senza sforzo nelle sue riflessioni continue; al suo fianco Jessie Plemons, il detestabile Todd Alquist di Breaking Bad, totalmente a suo agio in questa veste di nuovo non rassicurante, a tratti anche inquietante. A completare il quartetto ci sono David Thewlis, il celebre Remus Lupin della saga di Harry Potter, e l’eccezionale Toni Collette, anche loro tanto magnetici quanto angoscianti.
Complessivamente Kaufman ci regala meravigliosi dialoghi in cui nasconde la verità sulla storia senza mai esplicarla del tutto, arricchendo tutto con un senso di disagio ed inquietudine costante, ma mai eccessivo. A collaborare nella messa in scena c’è il d.o.p. polacco Łukasz Żal, nominato per l’Oscar alla fotografia con Ida e Cold War, che stringe in un aspect ratio di 4:3 bellissime immagini stranianti e oniriche.
Infine non si può non citare (evitando di dilungarmi per ragioni di spoiler) l’incrocio di espressioni artistiche che Kaufman regala in vari punti, commistioni che raramente si trovano nei prodotti cinematografici di questo tipo (l’unico altro esempio che mi viene in mente è quella piccola perla seriale chiamata Giri/Haji) e che fugano ogni dubbio sulla magia e la follia che pervadono l’opera.
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