Waiting for the Barbarians non è sicuramente un film di Hollywood convenzionale: pur presentando un cast di attori principali appartenenti al cinema USA (Mark Rylance, Johnny Depp, Robert Pattinson), la regia e il ritmo del colombiano Ciro Guerra lo rendono di una bellezza quasi ostica per lo spettatore medio, e tale bellezza è paragonabile a quella del deserto in cui è ambientato il film, un luogo dai paesaggi magnifici ma nel quale, senza un’adeguata preparazione e forma mentis, risulta molto difficile adeguarsi ed apprezzarne lo stile di vita.
Presentato in concorso alla 76esima mostra del cinema di Venezia e in arrivo più di un anno dopo (il 24 settembre) nelle sale cinematografiche italiane, Waiting for the Barbarians narra la storia di una piccola cittadina di frontiera, ultimo baluardo dell’Impero (un governo fittizio ispirato dai più grandi colonizzatori del ‘700, Inghilterra e Francia), in un territorio orientale nel quale vive una popolazione nomade di chiara ispirazione mongola, i “barbari”. La cittadina di frontiera è gestita con riguardo dal “Magistrato” (un dolentissimo Rylance), che, prossimo alla pensione, cerca di vivere in armonia con la popolazione autoctona, evitando di usare la violenza per sanzionare i pochi crimini che ogni tanto vengono commessi e tornando ad utilizzare il baratto come forma di scambio, sia tra gli abitanti della cittadina, sia con le popolazioni nomadi.
La tranquillità della frontiera viene spezzata dall’arrivo del Colonnello Joll (Johnny Depp, mai così in parte negli ultimi anni), un sovrintendente dell’Impero intento a far luce sui “movimenti sospetti” dei barbari, per stabilire la loro pericolosità nei confronti del governo centrale. Le efferate azioni di Joll, unite al successivo arrivo di Mandel (Pattinson finalmente nelle vesti di un cattivo) e alla conoscenza di una ragazza nomade (Gana Bayarsaikhan), ormai storpia e cieca a causa delle torture, faranno scaturire nel magistrato un senso di colpa esistenziale che metterà in discussione la natura stessa del suo comportamento.
Il film ha volutamente un ritmo pachidermico, volendo simulare quest’attesa per un “nemico” che, a conti fatti, non esisterebbe se non venisse cercato. Tutto il film assume quindi un carattere quasi metacinematografico, nel quale, senza il nostro sguardo da spettatori alla ricerca di una storia classica, aspettando un nemico per permettere di spezzare gli equilibri narrativi e poi ricomporli per il gusto dell’intrattenimento, la città del Magistrato sarebbe rimasta fiorente ed in armonia con quei “barbari” che desiderano soltanto di esser lasciati in pace. L’arrivo di Joll alla frontiera può essere visto come l’arrivo dello spettatore esterno nella pellicola che, seguendo regole prestabilite (dall’Impero per il personaggio, della narrazione per noi), non le adatta alla particolare realtà del luogo, ma cerca solamente di autoconfermarle, imponendo la propria volontà come, appunto, un impero colonialista.
Oltre alla forte critica al colonialismo e all’appropriazione culturale, Ciro Guerra mette in scena, grazie anche alla magnifica fotografia di Chris Menges fatta quasi completamente di luci naturali e movimenti di macchina leggerissimi (se non assenti), uno scorcio di vita rurale perfetta nel suo presentare un’autoregolazione quasi utopicamente anarchica e anticapitalista, nella quale il denaro viene eliminato in favore dei rapporti umani e la giustizia vuole riformare invece che punire, le poche volte in cui è necessaria. Una forma di governo che chiaramente è contro gli intenti dell’Impero, nel quale vige, tramite i suoi emissari, solo la cultura della supremazia sugli altri.
In più, attraverso la crisi di coscienza del Magistrato, e soprattutto il suo rapporto con la ragazza nomade, il film spingerà a riflettere sull’eccessiva indulgenza nei confronti di queste popolazioni, dimostrando come anche la “riverenza” data dai sensi di colpa non sia così ben accetta da culture che, in fin dei conti, vorrebbero solamente esser lasciate in pace perché troppo distanti da quelle occidentali. Questo doppio punto di vista non fa altro che innalzare il valore dell’opera che ha, nell’ambiguo finale, tutto il suo significato sociopolitico.
Come già detto, a livello formale il film è magnifico, con prestazioni attoriali di ottimo livello ed una sceneggiatura molto interessante firmata da J.M. Coetzee, già autore dell’omonimo libro, soggetto della pellicola. La sua lentezza (ma non noia, bisogna specificare) è il più grande scoglio, poiché lo spettatore ha bisogno di rimanere concentrato per poter uscire soddisfatto dalla sala, senza contare che il racconto è anche frammentato a livello temporale, con una divisione in 4 episodi (Estate, Inverno, Primavera e Autunno).
L’unico appunto che mi sento di fare è forse sulla lunghezza del segmento dedicato alla ragazza nomade, quello dell’inverno, che se tagliato di qualche minuto avrebbe giovato alla narrazione, essendo comunque 1 ora e 52 minuti una durata parecchio alta per un film dal ritmo così disteso. Ciononostante, la pellicola di Ciro Guerra (al suo primo lavoro internazionale) è bellissima, sia visivamente che contenutisticamente, e non richiede altro allo spettatore se non attenzione e fiducia, facendo sì che la propria bellezza risplenda solamente negli occhi di chi sa già quello che sta cercando, e che non si ritrova a vagare per un deserto arido solo perché ammaliato dai suoi paesaggi.
Un ringraziamento speciale a Iervolino Entertainment
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