Tre ragazzi ancora immaturi, che prendono la vita con troppa leggerezza: Arisu, che rifiuta di dare un senso alla propria esistenza preferendo il mondo dei videogiochi, sviluppando una specie di attaccamento morboso ad essi; Karube, il classico ragazzo affascinante ma un po’ troppo attaccabrighe; Chota, lo “sfigato” che si è fatto benvolere dagli altri due ma che, al pari dei suoi amici, non riesce a dare una svolta definitiva alla sua vita, nonostante sia piuttosto brillante. Tre scavezzacollo che non hanno intenzione di affrontare il naturale corso della vita con tutto ciò che comporta: crescere, maturare e prendersi le proprie responsabilità di uomini adulti.
Tutto questo finisce nel momento stesso in cui, dopo l’ennesimo guaio, escono da uno dei loro nascondigli e scoprono una Tokyo completamente deserta. Sulle prime, data la loro indole, non prendono sul serio la cosa, ma sono costretti a ricredersi quando una luce rossa che si staglia nel cielo della città e delle scritte apparse sugli schermi li informano che un “game” sta per avere inizio. Quello è l’inizio della fine per i tre, che dovranno armarsi di quel briciolo di serietà che li anima per portare a termine dei giochi nei quali in palio c’è la loro stessa vita.
Questa è la premessa di Alice in Borderland, serie targata Netflix e composta da 8 episodi, da poco apparsa sulla piattaforma e subito finita nei radar degli appassionati di cultura giapponese. La serie infatti è tratta direttamente dall’omonimo manga di Haro Aso, arrivato in Italia ormai ben dieci anni fa grazie a Flashbook Edizioni; al momento, purtroppo, il manga non è reperibile in tutti i suoi 18 volumi, ma è plausibile supporre che, se la serie tv dovesse andare bene anche qui in Italia, si penserà ad una ristampa o ad un’acquisizione di diritti da parte di una casa editrice intenzionata a cavalcare l’onda del successo. In ogni caso l’opera cartacea aveva già visto una prima trasposizione come anime, mai giunto in Italia. Forse è proprio per ampliare il pubblico di riferimento che la recente tendenza di Netflix di proporre versioni live-action di manga e anime ha colpito anche il lavoro di Haro Aso.
Non essendo esattamente reperibile l’opera prima, passiamo quindi alla domanda fondamentale: la serie vale la pena di essere vista? È difficile dirlo in breve, innanzitutto perché il paragone con l’originale questa volta non si può fare (a meno che qualche fortunato, circa dieci anni fa, non abbia iniziato la collana per puro caso) e in secondo luogo perché, si sa, niente è perfetto e per quanto sia effettivamente accattivante il soggetto, la struttura narrativa presenta le sue criticità. Partiamo subito col dire che molti elementi, sulle prime, sembrano ricordare Battle Royale; un paragone facile se si pensa che i protagonisti combattono contro altri simili per la propria vita. Sempre in un primo momento, uno degli eco che possono risuonare nella mente dello spettatore è quello del fallimentare Stay Alive, film del 2006 in cui un gruppo di ragazzi inizia un game party non consapevoli che morire nel gioco equivale a morire nella vita.
Tuttavia Alice in Borderland riesce nell’ardua impresa di sfruttare queste influenze creando qualcosa di nuovo; fino alla fine – e forse nemmeno a quel punto – non è ben chiaro se i protagonisti siano stati “prescelti” per partecipare al game – il che implicherebbe che il resto della città è stata uccisa – o se siano stati trasportati in un gioco o, addirittura, in una realtà parallela. Dove sono, allora, le criticità? Se Battle Royale sfruttava una trama unica fin dall’inizio, qui siamo piuttosto di fronte ad una serie di game che i protagonisti dovranno man mano affrontare; questo potrebbe rischiare di annoiare lo spettatore, dovendo osservare ciclicamente più o meno sempre la stessa struttura. Senza contare, purtroppo, che molto spesso l’esito dei giochi è scontato e potrebbe far desistere molti.
Eppure, se si riesce a superare lo scoglio del quarto episodio, si scopre che la trama prende una piega del tutto diversa e la “verticalità” che la caratterizza si scioglie andando a costituire una trama decisamente più compatta, intricata e, soprattutto, continuativa. Allo stesso modo, pur con qualche strascico di banalità, anche la scontatezza si dissipa in una serie di colpi di scena dal carattere decisamente più forte. Quel che conta, in effetti, non è tanto l’imprevedibilità della trama, quanto il modo in cui i “twist” sono messi in scena e come questi, nonostante tutto, possano comunque portare a degli esiti decisamente più inaspettati. Quella che infatti sembra una storia corale composta comunque da un numero limitato di persone, ben presto di allarga con un colpo di scena che cambia radicalmente le sorti dei protagonisti; appaiono sempre più comprimari, sono messi a dura prova i sentimenti che i giocatori provano verso i loro amici e si stabiliscono via via nuovi legami.
Questo fermo restando che, a tutti gli effetti, il vero protagonista di Alice in Borderland è in assoluto Arisu – come in realtà si rende chiaro ben presto nella serie, data la sua importanza nell’economia della progressione. Un dettaglio che non sarà sfuggito a chi ha familiarità con la lingua originale della serie, è che Arisu suona in modo molto simile alla traslitterazione del giapponese Alice, motivo per cui ad alcuni potrebbe risultare scontato fin dall’inizio il meccanismo alla base della sceneggiatura stessa e dove essa andrà a parare in alcune occasioni.
Un’ultima menzione, anche se potrebbe sembrare negativa, va fatta ai comprimari di Arisu; nel corso di Alice in Borderland si arriva ad un punto in cui sembrano tutti Navy Seals, ingegneri ed esperti in logica e criminologia. Sebbene questo possa far storcere in naso per la scarsa credibilità, c’è pur sempre da tenere a mente che i game sono strutturati in modo talmente brutale da far sopravvivere solo i migliori; per questo motivo non è difficile pensare che i coprotagonisti di Arisu siano tutti esperti in qualcosa. Lui stesso, in effetti, si presenta come un ragazzo senza scopo nella vita se non quello di giocare ad ogni videogioco esistente, eppure sarà proprio la mentalità da gamer a portarlo avanti nella serie.
Di gran lunga più interessante è, invece, la messa in scena generale della serie; partendo da una regia fresca, dinamica e accattivante per un pubblico anche più giovane, si arriva ad una fotografia e ad un uso del colore che hanno molto da dire. Non è difficile notare, infatti, che nel momento stesso in cui finisce il primo game, i colori tendono a rendersi più freddi e cupi, proiettando sulla messa in scena lo stato d’animo dei protagonisti; motivo per cui, invece, i flashback hanno tendenzialmente colori più caldi e “accoglienti”, proprio perché ripensati dai rispettivi protagonisti con un occhio diverso rispetto al momento in cui li hanno vissuti.
Ogni ricordo, peraltro sempre ben posizionato, lascia l’amaro in bocca, facendo capire allo spettatore quanto, nell’istante in cui lo hanno vissuto, i protagonisti non abbiano effettivamente “vissuto il momento”, dandolo per scontato o, addirittura, prendendolo come una seccatura. Piuttosto interessanti sono anche alcune coreografie che coinvolgono a vari gradi i protagonisti della serie; nonostante alcune scene siano forse meno credibili di altre – decisamente meglio strutturate – sono senz’altro d’intrattenimento e divertenti da guardare.
Il finale si apre alla prossima stagione (già confermata da Netflix) con un ultimo colpo di scena ma, soprattutto, porta ad un cliffhanger che pone le basi per una nuova run – per usare un termine videoludico – che si preannuncia di gran lunga più sadica e cruenta della prima. Non che manchino il sangue, la spettacolarità e, soprattutto, la lotta per delle decisioni assolutamente dolorose, ma i presupposti sono eccellenti e pensati per abbrutire ancor più i personaggi in gioco alla fine dell’ultimo episodio.
Nonostante, insomma, alcune criticità nella trama – che si riferiscono soprattutto a soluzioni a volte prevedibili e scene emozionanti ma poco credibili – Alice in Borderland intrattiene e anche bene; si gioisce e si piange con i suoi protagonisti e, complessivamente, è più che riuscita.
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