Dopo aver recensito quasi 3 anni fa l’anime Devilman Crybaby, ho deciso di tornare con questo editoriale sull’opera magna di Go Nagai, andando ad approfondire alcuni dei suoi aspetti filosofici che riguardano la natura del nostro agire e pensare. Nell’articolo saranno ovviamente presenti spoiler, siete stati avvisati.
Non c’è modo migliore per studiare qualcosa che il porsi in maniera quanto più distante nei suoi confronti: la vicinanza all’oggetto del nostro interesse non fa altro che complicare il nostro rapporto con esso, ci ricopre di una patina di emotività e personificazione che rende impossibile la valutazione e la comprensione della cosa in sé.
Tuttavia, è ancora più complesso non tenere in considerazione quanto il mezzo attraverso il quale ci avviciniamo alla cosa in questione, ne modifichi irrimediabilmente la nostra percezione e comprensione finale. Allo stesso modo di un telescopio, che con le sue lenti ci rende possibile lo studio di pianeti e stelle lontanissime, permettendo così alla nostra vista di vedere cose che altrimenti mai potrebbe, ne modifica in parte le proporzioni reali e le qualità. Così facendo, quindi, noi non percepiamo la realtà, ma solo quello che ci è permesso di osservare attraverso il mezzo. Cosa ci assicura infatti che l’oggetto in sé, privo della mediazione dello strumento, sia effettivamente come ci viene rappresentato?
Alla luce di questa premessa non ci può essere nulla di più complesso dello studio di noi stessi, della nostra natura più intima e istintiva, così soppressa da incalcolabili fattori culturali e allo stesso tempo così irrimediabilmente vicina, tanto da non poter essere mai compresa completamente. I nostri occhi, i nostri sentimenti, ci impediscono di guardarci dentro in maniera totale e completa. Gli strumenti di cui disponiamo non sono altro che imperfetti e parziali, ci mostrano infatti solo quell’aspetto di noi che, anche se inconsciamente, preferiamo vedere.
Go Nagai, con il suo Devilman, compie uno studio, seppur non privo di imperfezioni, della natura umana, della sua profonda e immutabile indole che non può che attuarsi. Nagai non vuole osservare direttamente l’uomo e infatti pone un filtro fondamentale ai fini della ricerca. I demoni, i veri protagonisti della storia di Devilman, non sono altro che un semplice pretesto, un modo come un altro per mettere sotto un diverso riflettore quello che, attraverso gli occhi dell’uomo, sarebbe stato impossibile porre.
Akira è il demone che ha mantenuto il cuore umano, l’unico che ha l’interesse ma al contempo la capacità di capire e studiare le vicende umane, riuscendo contemporaneamente a distaccarsene sufficientemente per comprenderle.
I demoni, vecchi padroni e abitanti della terra prima dell’arrivo degli uomini, vogliono riappropriarsi di ciò che era loro. Come possono fare se gli uomini sono molto più forti e numerosi? Un attacco frontale sarebbe una totale disfatta, poiché gli umani con le loro armi atomiche li sconfiggerebbero facilmente.
L’unico modo che hanno i demoni per vincere questa guerra è quello di sfruttare la natura umana e le sue debolezze. Impossessandosi di alcuni umani sarebbe molto facile metterli gli uni contro gli altri, facendoli in questo modo piombare nella paura e nel dubbio. I demoni, in quanto osservatori esterni, capiscono che gli umani sono profondamente diffidenti verso il prossimo, dunque metterli in una situazione critica di sfiducia non farà che permettere una vittoria totale senza bisogno effettivo di combattere.
Accade proprio questo, con gli umani che iniziano a combattere tra di loro in una moderna caccia alle streghe. Ognuno di loro potrebbe essere il nemico: alla prima avvisaglia di stranezza meglio liberarsi del dubbio e uccidere quello che, ad un primo impatto, sembra un mostro così diverso e distante da noi.
Nel giro di pochissimi giorni, gli uomini si sono decimanti da soli, uccisi dal dubbio e dalla paura. Nagai punta i riflettori su quanto sia facile prendersi gioco di noi e manipolare le nostre menti, sfruttando la nostra paura del diverso e dello sconosciuto, in una fortissima critica verso la xenofobia e il nostro innato egoismo sociale.
Devilman esaurisce molto presto quello che è l’interesse dell’autore verso la sua specie. Forse non siamo così complessi e insondabili come pensiamo, dal momento che agiamo seguendo una logica così animalesca e istintiva, tendente verso l’autodistruzione. L’attenzione e l’interesse della ricerca si sposta quindi sulle interazioni tra i singoli; se nel complesso siamo semplici e prevedibili, nell’individualità possiamo invece essere difficili e incomprensibili.
Se la paura è il leitmotiv della nostra specie, l’amore è invece quello del singolo. Se siamo antagonisti del prossimo a noi più lontano come gruppo, sappiamo essere amorevoli e comprensivi verso coloro i quali sono a noi più vicini. Nella storia veniamo messi davanti ad un sentimento nobile come l’amore che, nel suo piccolo, cerca di contrastare l’insensatezza della paura che porta inesorabilmente alla morte.
Nel manga ci sono due grandi amori, quello di Akira per Miki e quello di Ryo per Akira. Pur essendo amori apparentemente diversi e complessi nella loro singolarità, alla fine si rivelano come indistinguibili l’uno dall’altro e con la stessa natura di fondo.
Per quanto amiamo l’altro saremo costretti a rinunciare a lui, perché è nella sua individualità che si cela l’impossibilità della convergenza dei due animi. Per quanto due persone siano simili saranno sempre profondamente distinte e proprio per questo, in fin dei conti, saranno impossibilitate alla comunicazione.
Devilman riesce, quindi, con una naturalezza incredibile, a cogliere quelle che sono sfumature così complesse e stratificate, che spesso si mescolano e confondono nella nostra natura. Riesce a porsi sopra la comunità per studiarne la psicologia in un atto sociologico, mentre coglie l’intrinseca complessità del sentimento amoroso del singolo.
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