“Nel 2092 le foreste svaniscono e i deserti si espandono, il Sole debole e il suolo acido fanno scomparire le piante. In fuga dalla Terra, la UTS costruisce una casa orbitante per l’umanità“.
Con questo incipit non proprio incoraggiante si apre Space Sweepers di Jo Sung-hee, film Netflix che ha fatto parlare di sé per essere, a tutti gli effetti, il primo blockbuster coreano a tema spaziale. Un lungometraggio pubblicizzato con questo titolo altisonante e con un trailer scoppiettante non ha fatto altro che alzare l’asticella della mia curiosità. Così, dopo una visione approfondita, sono qui a parlarvi di quest’opera – per ora – unica nel panorama coreano.
La Terra è ormai invivibile e sull’orlo del collasso: fitte nubi di gas tossico colorano l’aria di una mortale tinta ocra e le persone rimaste sul pianeta necessitano di maschere protettive per sopravvivere. Ad approfittare della situazione è la UTS citata nell’introduzione: un’enorme corporazione che esercita il monopolio assoluto sul pianeta azzurro. Grazie alle sue risorse dà vita ad un complesso sistema orbitale, chiamato Distretto residenziale UTS, per fornire una dimora sicura e all’avanguardia ai cittadini terrestri.
A capo di questa Seconda rivoluzione spaziale c’è l’uomo più ricco e anziano del mondo, il magnate James Sullivan (Richard Armitage) di ben 152 anni. Questo borghese dal doloroso passato sogna di rendere il mondo un posto migliore, autoproclamandosi il profeta – qualcuno ha forse detto padre Comstock da Bioshock Infinite? – di un’imponente utopia scientifico-capitalista: mentre offre riparo alle persone più abbienti nell’opulento Distretto, programma la colonizzazione di Marte. Grazie ad un forte sfruttamento agricolo sostenuto dalla Super Pianta, un “albero della vita” modificato biologicamente per riempire di verde l’inospitale suolo marziano, ha intenzione di creare un nuovo Eden che possa prosperare lontano dalla Terra ormai in disfacimento.
Non è difficile ritrovare nel personaggio di Sullivan diversi e poco velati riferimenti a Elon Musk, tuttavia la sua ideologia è molto meno inclusiva: un giornalista fa notare a James che solo il 5% della popolazione mondiale ha accesso al Distretto e, di conseguenza, a Marte. Il corporativo si giustifica asserendo che solo gli “onesti” vengono presi in considerazione perché “non è il mondo ad essere sporco, sono gli uomini e i loro crimini contro la natura ad esserlo“. Quel restante 95% sono meri “scarti genetici“. È una coincidenza che le persone più “oneste” siano allo stesso tempo quelle più ricche? Viene da chiedersi se i lavoratori – la gente comune – vengano presi in considerazione (la risposta è no). Chi sono questi proletari? Gli spazzini dello spazio che inseguono e raccolgono gli ormai onnipresenti detriti extraterrestri a gran velocità.
Verrebbe quasi da dire “Proletari di tutti i paesi – o di tutto lo spazio – unitevi!”, sì perché la classe operaia mostrata in Space Sweepers proviene da ogni punto del nostro pianeta: russi, francesi, brasiliani, inglesi, afroamericani, coreani… In questo il film mette in piedi uno splendido lavoro corale che ben rappresenta la sua carica sociopolitica. Un dettaglio che ho molto apprezzato, siccome il lungometraggio in Italia è disponibile – per ora – solo in lingua originale sottotitolata, è il fatto che tutti i personaggi coinvolti parlino proprio la loro lingua madre, comprendendosi perfettamente. Ciò aumenta molto il realismo di una comunità eterogenea ma unita.
È qui che si inseriscono i protagonisti delle vicende, ovvero lo sgangherato equipaggio della nave spaziale Vittoria – da cui il lungometraggio trae il suo titolo originale Spaceship Victory – composto da quattro iconici personaggi: il taccagno pilota Tae-ho (Song Joong-ki), la risoluta piratessa Jang (interpretata dall’incantevole Kim Tae-ri, Sook-hee in Mademoiselle di Park Chan-wook), Tiger Park (Jin Seon-kyu) un temibile e tatuato addetto alla sala macchine armato di tomahawk, e infine il robot militare Bubs (doppiato da un bravissimo Yoo Hae-jin).
Il gruppo – che sulle prime pare un curioso mix tra i personaggi di Planetes di Makoto Yukimura e quelli di Cowboy Bebop – si guadagna da vivere vendendo tonnellate di rifiuti per poche centinaia di dollari. Sono tutti affiliati alla Fabbrica, un gigantesco satellite adibito alla gestione della spazzatura che, per estetica, potrebbe essere considerato un chiaro rimando a WALL•E. I loro sforzi pagano poco: i quattro spazzini farebbero di tutto per saldare i soffocanti debiti, persino centellinare le spese sul cibo.
Ciò che subito colpisce del microcosmo a cui appartengono i rozzi protagonisti sono proprio le scenografie. La loro nave è sporca, piena di cavi, parti meccaniche, valvole e schermi; il Distretto a cui appartengono (questa volta riservato ai non cittadini) è una baraccopoli lurida e opprimente, quasi come se fosse una rimessa maltenuta. Questa volta l’ispirazione è tratta da pellicole come Blade Runner, Akira e il tanto sottovalutato Elysium di Neill Blomkamp. Notevole il contrasto tra la fotografia legata alla povera gente, tendente al giallo con leggeri toni di rosso, e quella dei borghesi benestanti, algida, quasi glaciale.
Tae-ho e i suoi amici, poco dopo l’inizio degli eventi, hanno la possibilità di redimersi: nella stiva di una nave rubata e che avrebbero dovuto vendere, trovano una bambina recentemente scomparsa chiamata Dorothy (Park Ye-rin). Quest’ultima è sulla bocca di tutti, pare infatti che non sia un normale essere umano, bensì un androide-bomba che verrà utilizzato da degli estremisti – le Volpi Nere – per ordire un attentato ai danni della UTS. Questo gruppo terroristico, per fare riferimento alla storia contemporanea, è assimilabile alla Provisional Irish Republican Army, organizzazione paramilitare irlandese che a lungo osteggiò l’operato di Margaret Thatcher, a cavallo tra il 1979 e il 1990.
In possesso di questo pericoloso androide, e quindi ricercati sia dai terroristi che dalla Guardia Spaziale, i nostri eroi tentano di escogitare uno sconclusionato piano per tirarsi fuori dai guai: vendere la bomba ai terroristi per due milioni di dollari o proteggerla dal pericoloso occhio del governo? Questa è la trama di Space Sweepers e da queste premesse si articolano le divertenti vicende.
La banda di pirati spaziali dovrà fare i conti con la presenza di questa bambina e i risvolti che ne conseguono sono spesso esilaranti. Tutti quanti loro avranno la possibilità di approfondire il rapporto con Dorothy, vivendo esperienze o siparietti comici che li faranno affezionare alla nuova arrivata. Diverranno, insomma, dei veri e propri zii; soprattutto Tiger, il personaggio che ho amato di più e che dimostrerà di avere un cuore d’oro.
Non mancherà l’esplorazione delle varie backstory del gruppo: il film riesce ad alternarle molto bene, portando a casa una buona miscela di risate e commozione. L’atmosfera in compagnia degli spazzini spaziali è sì sopra le righe – grazie anche all’eccellente spalla comica rappresentata da Bubs – ma non risulta mai eccessivamente caricaturale. Una spassosa banda di matti, dei Guardiani della Galassia coreani.
Venendo ad un’analisi più netta della pellicola, i momenti più action e drammatici – scatenati da certi twist e sviluppi del racconto – si hanno a partire dalla sua seconda metà, e il tutto culmina poi in un terzo atto epico dove delle adrenaliniche sequenze spaziali la fanno da padrone. Gli effetti visivi, a parte qualche sbavatura qui e là, non sono mai eccessivi, anzi, risultano ben equilibrati nelle riprese, soprattutto nei frangenti d’azione.
Gli elementi che non convincono, invece, sono due: il primo è il villain portato in scena da Richard Armitage. A differenza dei comprimari, ho trovato James Sullivan un antagonista decisamente stereotipato, forse addirittura piatto. È un personaggio che si fa odiare dal primo momento e che non lascia spazio all’empatia da parte dello spettatore. La recitazione di Armitage è l’unica cosa che lo salva in corner. Ottima quella dei personaggi principali, sempre credibili.
La seconda componente che potrebbe far storcere il naso è la decisa impronta derivativa dell’opera. Come ho volutamente puntualizzato nel corso di questa recensione, il film prende ispirazione – spesso a piene mani – da numerose opere di genere cyberpunk o fantascientifico. Attenzione: ciò non è sempre un male. Per citare un esempio positivo, l’esercito governativo armato di tutto punto e dotato di scintillanti esoscheletri mi ha piacevolmente ricordato Captive State di Rupert Wyatt; nonostante questo i soldati immaginati da Jo Sung-hee presentano comunque una loro dignità artistica. In altre scelte estetiche e di scrittura, tuttavia, Space Sweepers non brilla certo per originalità.
Questo piacevole blockbuster spaziale fonde un forte messaggio ambientalista – non di certo nuovo ma quanto mai necessario oggi – alla lotta di classe e ciò traspare molto chiaramente nell’ultima mezz’ora e in una scena in particolare (che eviterò assolutamente di spoilerare), dove mi era quasi venuta voglia di sparare l’Inno dell’URSS a tutto volume.
Space Sweepers pone l’accento sui rapporti umani, sulla loro costruzione: solo questi – e non certo avide corporazioni corrotte da folli ideologie – ci offrono la possibilità di ritrovare la nostra vera casa.
Nello spazio non ci sono alti o bassi. Dal punto di vista dell’universo niente è inutile o prezioso. Tutto è prezioso lì dov’è.
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