Nel corso degli anni l’industria cinematografica ha trovato moltissimi modi per parlare di temi considerati caldi e/o attuali rispetto ai disordini che si stanno vivendo; in particolare una delle piaghe sempreverdi della superdemocratica America è stata, è attualmente, e forse resterà ancora per diverso tempo, quella del razzismo. Non sconvolge più di tanto, dunque, che molti prodotti ancora tocchino questa tematica in modi diversi. Si passa per la sempre coinvolgente biografia o per la finzione, in senso lato dal momento che l’aggancio con la realtà esiste ed è anche piuttosto forte.
Come si struttura, quindi, un racconto che non utilizzi personaggi realmente esistiti? Nel tempo si sono battute due vie, una forse più efficace dell’altra, che ha anche trovato un posto per tutte le sfumature che esistono tra questi due modi di raccontare. Se da un lato infatti abbiamo il brillante esempio di Jordan Peele, capace di costruire delle allegorie perfette ed efficaci, dall’altra abbiamo invece una narrazione che procede con un racconto meno simbolico e più dritto al punto, che però a volte risulta piattamente retorico con il rischio di risultare meno accattivante e meno efficiente del primo – basti pensare in tal senso al caso Antebellum, bellissimo ma di una pesantezza senza pari. Solo una cosa è certa: in questo panorama il genere più sfruttato negli ultimi anni sembra essere l’horror.
È proprio nel mezzo che si colloca Them, serie antologica di Little Marvin e prodotta da Amazon Prime Video, in cui alle forti allegorie presenti si alternano anche momenti di critica più diretta in cui, insomma, il messaggio arriva direttamente e non dopo un’analisi simbolica dell’oggetto o soggetto diegetico. Per facilitare lo svolgimento si è scelto di ambientare la serie nel 1953, negli anni in cui il razzismo era ancora spietato e le leggi Jim Crow ancora mietevano le loro vittime, come suggeriscono anche le parole iniziali sovrascritte sull’immagine della felice famiglia Emory in viaggio.
Sono infatti anche gli anni in cui molte famiglie non-bianche, per usare una definizione che la legge sopracitata apprezzerebbe, migrarono da una parte all’altra degli Stati Uniti alla ricerca di un posto dove sentirsi a casa; Them dimostrerà allo spettatore che questo locus amoenus purtroppo non esisteva. Il primo alert da tenere in considerazione è che l’ambientazione storica non impedisce alla serie di mettere in scena tematiche ancora attuali proprio perché, come apertamente detto all’inizio, il razzismo non è certo passato di moda, ha solo cambiato veste.
In tal senso la serie nasce anche per far riflettere lo spettatore su questa piaga che continua ad affliggere il paese, ricordandogli di quali porcherie alcuni sono stati capaci pur di rivendicare quella terra come un loro esclusivo diritto. Ed ecco che allora la famiglia composta da papà Henry, mamma Livia – detta Luck – e le due figlie Ruby e Gracie, presta la propria voce per rivendicare il loro diritto ad essere liberi e condurre una tranquilla vita di periferia esattamente come i famosi wasp. Con alcuni flashback tra i più inquietanti degli ultimi anni, scopriamo che gli Emory si sono trasferiti dal North Carolina alla California perché perseguitati fino alla nausea dai vicini bianchi; un background doloroso e rivoltante li ha costretti ad abbandonare tutto e ripartire da zero in una nuova città, nella quale però, entro poche ore, scopriranno di non essere i benvenuti.
Come se le persecuzioni da parte del vicinato non fossero abbastanza, la famiglia sarà anche tormentata da entità maligne che metteranno a dura prova la salute mentale dei quattro. Ad un primo sguardo, anche a visione finita, questo secondo dettaglio potrebbe risultare di troppo; senza fare troppi spoiler, è piuttosto surreale che capiti anche questo ai poveri protagonisti, che guarda caso solo la famiglia di colore sia tormentata da queste entità. Questo piccolo particolare può forse far scivolare la serie verso Antebellum e una retorica sovraccarica di significato che rende pesante la lettura della vicenda; tuttavia si deve sempre considerare la natura allegorica di queste inquietanti presenze e si scoprirà che è molto più sottile e brillante di quanto non appaia sulle prime.
I fantasmi trovano la loro collocazione in un più ampio discorso in cui si esorta la comunità afroamericana stessa a liberarsi dei mostri che senz’altro i bianchi hanno contribuito a far nascere, ma che anche loro hanno alimentato, e questo si rende particolarmente chiaro sia nella visione che tormenta Henry che in quella della figlia maggiore Ruby. Entrambi, infatti, non sono perseguitati, come la piccola Gracie, da entità che affondano le loro radici quasi esclusivamente nel terrore, ma hanno anche un significato profondamente legato al background dei due; allo stesso modo il fantasma che opprime Luck sarà legato ad uno dei timori più grandi che una mamma possa mai affrontare – ma di cui evito di parlarvi per non fare spoiler.
Questo efficace contenuto ha una cornice non meno interessante da prendere in considerazione: ogni elemento, che sia la costruzione dell’immagine o il montaggio sonoro, fino alla colonna sonora e alle scenografie, contribuisce a rendere preziosa Them.
Infatti la costruzione visiva , fatta di split screen e cambi di prospettiva anche attraverso l’uso del piano olandese, riesce a restituire in ogni istante le emozioni provate dai personaggi. Se è vero che i protagonisti sono senza dubbio gli Emory, non mancano i focus anche sugli altri abitanti della via, soprattutto per quanto riguarda l’apparente perfezione inamidata di Betty Wendell – alla cui cura maniacale per un aspetto a modo corrisponde la capacità di pensare ogni tipo di cattiveria, svelandone l’interiorità marcia che cerca disperatamente di nascondere con quel finto sorriso smagliante.
Anche il secondo flashback più importante, dopo quello che riguarda Luck, assume delle connotazioni particolari, preferendo agli sfavillanti colori degli anni ’50 un inquietante bianco e nero, adatto per raccontare le vicende accadute quasi un secolo prima. In questo contesto, inoltre, ogni interprete si dona in una forma assolutamente invidiabile; passando per Shahadi Wright Joseph – che non a caso abbiamo avuto il piacere di vedere in Us – e prendendo in considerazione tutti gli attori, ognuno svolge il proprio lavoro in modo impeccabile sia in scene corali sia nei momenti in cui sono i protagonisti assoluti della scena. Ognuno di loro, che sia Ashley Thomas o Deborah Ayorinde (rispettivamente Henry e Luck) fino alla piccola Melody Hurd, dà prova di un controllo esemplare soprattutto nel passaggio dalla serenità ad atteggiamenti assolutamente inquietanti.
Ciò che infatti rende quasi unica Them è la capacità di costruire delle immagini che da un tono conciliante passano per l’inquietudine più cupa; anche nei rari jumpscare ben posizionati, l’angoscia non si attenua ma, al contrario, convince lo spettatore che qualcosa di ancora peggiore possa accadere. Una costruzione unica che alimenta l’ansia già dopo i primi minuti e che non si risolve mai, fino alla fine dell’ultimo episodio.
Ultima, ma non di certo per importanza, la bellissima colonna sonora che sottolinea ogni stato d’animo e che passa brillantemente da canzoni pop a composizioni più altisonanti per evidenziare l’angoscia provata dai protagonisti della sequenza. Molto spesso è anche ben montata rispetto alla costruzione della sequenza stessa – come ad esempio il sempre efficace escamotage di interrompere bruscamente il brano alla chiusura di una porta o in corrispondenza di un altro rumore diegetico forte.
Come anticipato all’inizio, Them è un ottimo prodotto di congiunzione tra la retorica più diretta e la perfetta allegoria. Quel che infatti può sembrare un momento di critica senza troppi fronzoli, risulta invece ben bilanciato per far scaturire un’analisi introspettiva di ciò che la comunità afroamericana ha anche autoalimentato in decenni di razzismo post-schiavitù, a causa di atteggiamenti comunque poco tolleranti nei propri confronti; un mostro di cui dovrebbero disfarsi per poter portare avanti le doverose lotte sociali che ancora non sono state combattute – o almeno non abbastanza da far crollare le esistenze degli ultimi incrollabili razzisti.
Siamo davanti ad un prodotto importantissimo soprattutto per gli americani, ancora alle prese con questa piaga, ma che anche qui oltreoceano non guasta per la sua capacità di far riflettere il pubblico sui concetti di tolleranza e uguaglianza.
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