PTSD – Lontana da casa, graphic novel di Guillaume Singelin edita in Italia da Edizioni BD, è forse uno di quei pochi casi in cui è possibile giudicare un libro sin dalla copertina. Mi spiego: il titolo a caratteri cubitali e la key art vibrante e dettagliatissima portano subito a pensare “questa lettura sarà una vera bomba”; un pregiudizio quanto mai azzeccato. In questa recensione scopriremo il perché, lasciandoci trascinare dall’affascinante premessa che l’autore ci presenta in una nota:
Una delle prime cose che notai è che spesso il Disturbo Post-Traumatico da Stress non viene considerato come un disturbo reale, diagnosticabile. Ciò costringe coloro che ne soffrono ad affrontarlo senza gli aiuti o i sostegni necessari. Il modo in cui la società tratta e parla di malattie “invisibili” come questa mi interessa molto.
La protagonista del racconto è Jun, ex tiratrice scelta molto talentuosa, da one shot one kill per intenderci. Come ci ricorda la quarta di copertina, “torna a casa dopo aver servito il suo paese in una guerra impopolare” che non facciamo fatica a ricondurre, per ambientazioni e lugubri atmosfere, a quella del Vietnam; un conflitto ingiusto e catastrofico che PTSD critica senza peli sulla lingua, caricando il suo giudizio di uno spiccato pacifismo. I sopracitati frangenti bellici, che la narrazione sfrutta in alternanza con i momenti ambientati nel presente, sono fondamentali per delineare i comportamenti della ragazza. È una veterana che al fronte ha perso tutto: soffre i morsi della fame, dorme nei vicoli e viene trattata come feccia dal governo centrale che lascia morire lei e altre centinaia di commilitoni in mezzo alla strada.
Come se non bastasse, il suo evidente Disturbo Post-Traumatico da Stress l’ha resa dipendente da antidolorifici in pillole. Jun, mentalmente parlando, non è mai tornata dal fronte: la patologia la isola e la rende potenzialmente pericolosa per il prossimo a causa di repentine scariche di violenza, tant’è vero che viene etichettata come “la pazza isolata” dai suoi concittadini.
Concittadini in una città orientaleggiante ai limiti di una baraccopoli, permeata da slums, insegne al neon, case popolari e tonnellate di spazzatura: l’opprimente sottobosco urbano è ciò che ci viene mostrato con più insistenza nel corso della storia, così come la sua decadenza. I suddetti veterani sono viandanti senza dimora e – similmente alla nostra protagonista – affetti da dipendenze di vario genere, una su tutte quella per i calmanti, venduti a caro prezzo da spacciatori e gang che monopolizzano ogni quartiere. Le atmosfere del fumetto, insomma, godono di una crudezza e di un realismo palpabili; azzardo dicendo che si potrebbe considerare PTSD come un perfetto quadro neorealistico.
Tra i tormenti di Jun pare aprirsi uno spiraglio di salvezza quando la sua vita si incrocia con quelle di Leona, una mamma molto altruista, e il suo esuberante figlio Bao. La donna gestisce un piccolo ristorante che sfrutta per dare un pizzico di sollievo ai clienti più disparati, tra cui i senzatetto. Un lavoro che le permette di riacquisire un minimo di fiducia nell’umanità così meschina. Il rapporto tra la protagonista e la coppia di comprimari è decisamente turbolento a causa del temperamento dell’ex soldatessa, fortemente refrattario all’apprensione di Leona. Quest’ultima dimostra di avere una condotta da crocerossina: aiutare il prossimo, chiunque sia, la fa sentire meglio; insiste a più riprese per infondere un po’ di calore nella glaciale esistenza di Jun: calore palesato graficamente dal predominio di colori caldi.
Il lato più umano del nostro cecchino è apprezzabile in fugaci siparietti agrodolci, ambientati sia nel passato che nel presente. Due sono secondo me i più iconici: il primo è una sequenza bellica in cui la ragazza promette ai suoi compagni di squadra che “li terrà sempre d’occhio“, occhio che – ironia della sorte – perderà. Nel secondo ci vengono mostrati addirittura i migliori amici di Jun che sono… sottoterra. Lei va a tenere loro compagnia in un piccolo cimitero giapponese immerso in un boschetto cittadino; un frangente breve ma di forte impatto. Guizzi di scrittura, quindi, che dimostrano come il personaggio principale dell’opera non sia affatto bidimensionale o costruito come una macchietta atta alla progressione degli eventi, bensì un’eroina a tutto tondo completamente immersa in un viaggio interiore ed esteriore.
Viaggio che la porta a fare la conoscenza di un’altra figura secondaria nella narrazione, ovvero l’ex sminatore Grey, per me il comprimario migliore dell’intero fumetto. L’anziano soldato – che donerà alla protagonista il cane Red affinché lei possa “rimettere in pista la sua vita” – gode di una splendida e commovente side story. Lungi dal sottoscritto spoilerare il suo svolgimento, riporto semplicemente un toccante monologo tratto da essa, con la speranza di incuriosirvi:
Sono tornato quindici anni fa. Pensavo di riprendere la mia vecchia vita, ma non c’era nessuno ad aspettarmi, a casa. Un funzionario dell’esercito mi ha fatto scendere dall’aereo e fine. Ero per strada, senza un soldo. Ho provato a chiedere aiuto al governo, ma era come se neanche mi vedessero. Ho regalato loro un pezzo della mia anima e in cambio ho ricevuto questo incubo. Questa solitudine. La loro soluzione è provare a fotterti il cervello con le pillole. Ne vedo finire così a migliaia ogni giorno. Tutto quello che sanno fare è avvelenarci.
Nonostante Guillaume Singelin calchi particolarmente la mano sul versante psicologico della sua creazione, non dovete pensare a PTSD come una monotona graphic novel esistenzialista. C’è spazio anche per lotte e sparatorie che, in particolare, aumentano la loro frequenza nella parte centrale del volume. Memorabile una frenetica e cinematografica sequenza action condita da muzzle flash, scoppi, sangue e fumo dove Jun abbatte la sua vendetta dalla mira infallibile su una gang di spacciatori. È questa la scintilla che fa scoppiare un’egoistica crociata tra la tiratrice e i gruppi di criminali; una serie di contrasti che mette in serio pericolo la gente comune e, soprattutto, la comunità di poveri veterani. Caratterizzata da una scrupolosa regia è anche un’altra rapidissima battaglia intrisa di furia omicida, presente verso la fine della storia.
In definitiva, il messaggio cruciale che l’autore desidera trasmettere con la sua opera ha al centro una parola: condivisione. Condividere è fondamentale, non con lo scopo ricevere qualcosa in cambio, ma perché è sempre la cosa giusta da fare; che si tratti di empatia tra sconosciuti per trasportare il grave peso del dolore o di mezzi di fortuna per sopravvivere.
Nelle ultime righe di questa recensione, ho volutamente deciso di trattare la componente artistica di PTSD, un quanto mai gradito dulcis in fundo. Tra le punte di diamante del fumetto, il tratto di Singelin è veramente peculiare: tremolante ma minuzioso. I colori utilizzati sono vibranti e rendono le tavole variopinte; le palette cromatiche risultano adatte ad ogni situazione: si passa da colorazioni più scure per tristi serate piovose a piacevolissime tinte pastello per le giornate in cui il sole fa capolino. L’estetica della graphic novel è di così pregevole fattura che mi ha ricordato l’uso eccellente che un maestro come Alberto Madrigal – per il quale vado matto – fa dei suoi acquerelli. Alcune illustrazioni, grazie alla gestione oculata delle luci e delle tavolozze, sembrano uscite direttamente da un film!
A coronare il tutto è Edizioni BD, che concede a questa grande storia un volume di alta qualità in copertina rigida, molto pregevole. Non mancano al suo interno ricchi interventi dell’autore, impreziositi da bozzetti e schizzi preparatori. Che dire di più? PTSD è un’opera imperdibile, dichiaratamente ispirata a capisaldi del genere come Jarhead di Sam Mendes o Full Metal Jacket; senza dimenticare influenze da parte di capolavori indimenticabili come Akira, Ghost in the Shell o i lungometraggi di Johnnie To e John Woo. Questo e molto altro rendono, a mani basse, la creazione di Guillaume Singelin una delle migliori graphic novel dell’anno.
Un ringraziamento speciale a Edizioni BD
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