Paul Schrader è indubbiamente uno dei volti più importanti della New Hollywood: ha iniziato come sceneggiatore firmando capolavori del calibro di Taxi Driver e Obsession, intraprendendo poi nel 1987 una carriera da regista che non ha mai abbandonato. Ora, a 75 anni di età e 4 di distanza dal suo ultimo film First Reformed, Schrader torna al cinema con Il Collezionista di Carte (in originale “The Card Counter“, qui non si colleziona nulla), in concorso alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia e prodotto dal collaboratore e amico Martin Scorsese.
Oscar Isaac interpreta William Tillich, un veterano dell’esercito che ha passato i suoi ultimi 8 anni e mezzo di vita in carcere, utilizzando l’enorme quantità di tempo a disposizione per imparare a contare le carte e vincere principalmente a blackjack. William non utilizza mai il suo vero cognome, ma si fa chiamare Tell (Guglielmo Tell) e viaggia per l’America passando la vita tra un casinò e l’altro, facendo piccole vincite in modo che nessuno si accorga (o comunque vada a controllare) che conti le carte.
Il passato torna però a tormentare William quando incontra Cirk (Tye Sheridan), il figlio di un suo ex-commilitone che lo informa del suicidio del padre a causa delle pressioni sociali e psicologiche provocate dal lavoro. Infatti William è finito in prigione per aver eseguito torture su ordine del Maggiore John Gordo (Willem Dafoe) nel carcere di Abu Ghraib, utilizzando il “metodo Guantanamo”. Lui e il padre di Cirk erano stati condannati dopo fuga di fotografie che li ritraevano nei pestaggi, ma il loro superiore ne era uscito indenne e libero. Il piano del giovane quindi è quello di vendicare il padre, chiedendo l’aiuto di William.
Dalla sinossi sembrerebbe trattarsi di un normale film di vendetta, ma The Card Counter in realtà si allontana sensibilmente da quei lidi e segue pedissequamente i temi cari al regista: la solitudine di un uomo disilluso, l’ossessione per il passato, l’impossibilità di andare avanti e l’essere perdonati/perdonarsi. È infatti proprio quest’ultimo il tema cardine di tutto il film che si pone, in questo caso, come un “sequel spirituale” di First Reformed. Se il film precedente del regista portava alla luce una riflessione sulla necessità di riempire il vuoto della propria esistenza con azioni e ideologie estreme, il tutto per mancanza di contatto umano, ne Il Collezionista di Carte si parla proprio della possibilità che quel contatto umano arrivi. Anche con la possibilità di ricominciare, con un impulso positivo, è possibile riscattarsi dal proprio passato?
Nel film il protagonista è così assuefatto dalla vita nel carcere che per dormire, nei motel, copre tutto il mobilio con dei teli bianchi e rimuove ogni orpello per avere la stanza il più possibile anonima, come se volesse ancora punirsi per quello che ha fatto, come se non meritasse la sua libertà. Allo stesso modo però vede in Cirk qualcuno che non è destinato alla solitudine come lui, e nonostante abbia già i suoi debiti e i suoi primi “demoni”, William vuole fare di tutto per non farlo affondare. Ed è proprio questo primo contatto “empatico” la scintilla che fa scaturire la narrazione.
Schrader non spettacolarizza mai la violenza, lasciando spesso fuori campo le scene più cruente. È invece nei flashback di William, ambientati nella prigione di Abu Ghraib, che il regista mostra ciò che accade senza filtri, e distorce la realtà non solo tramite i suoni (con delle sfuriate grind rumorosissime), ma anche tramite l’immagine, usando un fisheye estremo che fa “rientrare” la scena su sé stessa, creando un effetto quasi specchiato.
La forza del film sta principalmente nella sua messa in scena, nello scegliere di trattare proprio quelle parti di una storia sì semplice, ma con un impatto emotivo veramente forte, rendendo quello che rimane sospeso più forte di quello che viene mostrato, e facendo temere davvero la violenza. La condanna al metodo americano della “spettacolarizzazione ad ogni costo” viene denigrato anche attraverso il personaggio di Mr. USA, un giocatore di poker che il protagonista troverà quasi sempre al tavolo, vestito con una canottiera a stelle e strisce e con immancabili supporter al seguito che, per ogni mossa vincente, non esiteranno a incitarlo ed esultare.
Con questo film Schrader tocca forse il suo apice tecnico di sempre, firmando, oltre che una sceneggiatura notevole e ricca di sottotesti, una regia sempre piena di guizzi originali nonostante la veneranda età. In sinergia con la fotografia dai colori saturi ma realistici, cupi, di Alexander Dynan, che si avvicina molto a quella di Twin Peaks: The Return, riesce persino a “rubare” lo stile di Refn in una scena al neon emotivamente toccante.
Il Collezionista di Carte è un film complesso, stratificato, che nonostante la preponderanza di dialoghi e della voce narrante del protagonista, dà il meglio di sé nel non detto, nelle riflessioni che Will e gli altri personaggi portano sullo schermo, ma anche quelle che fa nascere nello spettatore durante la visione. Fatevi un regalo e andate a vederlo il prima possibile, anche solo per riflettere su qualcosa che nell’ultimo periodo ha colpito tutti noi: la solitudine.
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