Di tanto in tanto la sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia – dedicata a film minori, ma rappresentativi di nuove tendenze estetiche ed espressive del cinema mondiale – riserva qualche sorpresa. Proprio in questa 78ª edizione fa capolino una coproduzione messicana e polacca dal titolo El hoyo en la cerca (Il buco nella recinzione in italiano) che ha attirato il mio spirito cinefilo grazie alla sua intrigante sinossi:
In un esclusivo campeggio estivo immerso nella campagna messicana, sotto lo sguardo vigile dei sorveglianti, i giovani di una prestigiosa scuola privata ricevono un addestramento fisico, morale e religioso che li trasformerà nella élite del futuro. La scoperta di un buco nella recinzione innesca però una catena di eventi sempre più inquietanti. L’isteria si diffonde velocemente…
Trasportato in sala da una certa curiosità, inizialmente mi sono trovato dinanzi a degli establishing shot che chiariscono subito i confini dell’ambientazione e la sua atmosfera; tutto ciò grazie alla fotografia di Alfonso Herrera Salcedo, caratterizzata da un’alta esposizione. Essa dona al Centro Escolar “Los Pinos” – questo il nome del campo di integrazione – un’aria idilliaca, come se si trattasse di un Giardino dell’Eden sulla Terra.
Qui un folto numero di ragazzini esclusivamente di sesso maschile e provenienti dalle sfere sociali più agiate viene preso sotto le ali protettrici di professori e preti. Tra questi ultimi spiccano tre precettori: il glaciale e violento Sztuhr (Jacek Poniedzialek), il solare e spiritoso Tanaka (Takahiro Murokawa) e Monteros (Enrique Lascurain), un insegnante pacato e rigoroso che eleggo il mio preferito del trio per via della sua convincente interpretazione.
Il motto è “Postura, puntualità, penitenza“: i giovani apprendisti infatti prendono parte ad attività che, almeno all’apparenza, possono essere ricondotte a quelle di un normale campo scout. Si parla di giornate trascorse in preghiera, birdwatching e coltivazione, al fine di “collegarsi con Dio” per attuare il passaggio da bimbi a veri uomini forti.
È proprio il caso di dire “l’abito non fa il monaco“, perché la santità e la purezza del Centro Escolar sono – prevedibilmente – solo di facciata: i bambini sono tenuti sotto stretta sorveglianza giorno per giorno, vengono ispezionati come se fossero membri di un esercito e gli insegnamenti impartiti – spesso attraverso maltrattamenti – risultano eticamente scorretti. L’omofobia e la xenofobia, per esempio, sono all’ordine del giorno.
Nello specifico, ai ragazzini del campus viene vietato categoricamente di lasciare il luogo, poiché i maestri ritengono che la regione che li circonda sia estremamente pericolosa: la popolazione locale – a cui viene attribuita l’etichetta di “indigeni” – vive in condizioni disperate e ciò porta questi ultimi, sempre secondo le parole fuorvianti dei professori, a spacciare droga e rapire innocenti. Le povere cavie di Los Pinos devono agire egoisticamente, anziché per il prossimo, in modo da preservare la loro integrità. L’obiettivo ultimo è “correggere le brutte abitudini del mondo esterno“. Nonostante ciò, in maniera totalmente ipocrita, il dispotico ordine religioso organizza delle “gite scolastiche” al fine di rifornire di viveri i tanto odiati indigeni, così da guadagnarsi la loro fiducia.
Insomma, gli studenti sono vittime di veri e propri lavaggi del cervello che li portano, di conseguenza, ad essere aggressivi come i loro insegnanti: basti pensare che il ripudio per l’omosessualità – che si manifesta in maniera del tutto naturale, date le circostanze – porta addirittura ad una rissa dove uno dei partecipanti, figlio di un influente ministro, è costretto a lasciare il campo con il naso fratturato.
Il regista Joaquín del Paso imbastisce un lavoro corale dove i piccoli protagonisti delle vicende potrebbero essere visti come varie sfaccettature della sua storia passata, dal momento che lui stesso ha dichiarato che ogni suo film è basato su “qualcosa di strettamente personale“, ovvero ansie e dolori per la maggiore. Il pestifero Jordi (Valeria Lamm Williams), il debole ed emarginato Joaquín (Lucciano Kurti) o il represso Edwin (Raul Vasconcelos) sono solo alcuni dei personaggi che si incontrano nel campus. Vi è difatti anche Diego (Eric David Walker) – figura chiave della trama – un bambino paraplegico molto solitario e refrattario alla dottrina di preti e precettori. La scoperta del fantomatico buco nella recinzione che cinge Los Pinos lo coinvolgerà in prima persona, oltre a scatenare la paura negli altri studenti.
Chi è stato a perforare il recinto? Un “fantasma azteco” o i pericolosi indigeni? Il professor Sztuhr parla persino di misteriosi incidenti verificatisi anni prima: è un mistificatore o nelle sue parole c’è un fondo di verità? Quel che è certo è che la polizia non deve essere coinvolta per nessun motivo. Ciò che affascina di El hoyo en la cerca è questo non detto che aleggia in sceneggiatura: si è persino portati a pensare che il famoso buco sia stato praticato dagli insegnanti stessi per mettere alla prova i pargoli, come se fosse una moderna Mela dell’Eden che induce in tentazione.
Fatto sta che questo incidente scatena nel campo scuola un’isteria crescente che culmina in una scabrosa “attività ricreativa” chiamata Guerra delle bandiere – evento a cui sono dedicate le scene più impetuose e vivaci del lungometraggio – la quale consiste nello scannarsi a vicenda con calci, pugni e torture per dimostrare di essere degli autentici uomini. L’esaltazione fanatica investe anche il villaggio indigeno vicino con conseguenze disastrose; la mattanza si consuma, un destino diverso attende il già citato Diego. Chi sono i veri indigeni? Gli abitanti del paesino limitrofo o i bimbi ormai prede della più sfrenata follia?
In definitiva, El hoyo en la cerca è un’opera stratificata che cela in sé più messaggi e interpretazioni; la principale – stando alle parole dell’autore – vede il film come un’accesissima critica alla religione cattolica, unita ad una denuncia al sistema scolastico ed educativo dell’America Latina, minato da manipolazioni psicologiche e abusi di tutti i generi, vissuti personalmente da Joaquín del Paso. In tutto ciò si sostanzia il più grande punto di forza del lungometraggio che si dimostra essere anche un lato negativo: per comprenderlo a fondo bisognerebbe conoscere al meglio l’ambiente messicano che attacca. Nonostante ciò, la morale arriva forte e chiara.
Sono due gli elementi che rendono questo possibile: in primis una regia posata e al servizio della storia, che alterna belle inquadrature fisse a sequenze in movimento, ottime per raccontare la pervasività di un ambiente educativo tossico. Il secondo è una colonna sonora ambient con tocchi di elettronica, composta a quattro mani da Michael Stein e Kyle Dixon (Stranger Things), che accompagna a dovere la maggior parte delle scene.
The Hole in the Fence prende a piene mani da grandi film come La spina del diavolo di Guillermo del Toro e Dogtooth di Lanthimos e si presenta come un lavoro riuscito, che pecca però di un ritmo altalenante e una “digeribilità” non adatta a tutti. Malgrado ciò, nell’insieme convince e resta un esperimento godibile.
Il sistema scolastico messicano crea barriere invisibili che, fondamentalmente, alimentano un continuo abuso razziale, di genere e di classe sociale. Lasciano poi profonde cicatrici in chi ha sperimentato in prima persona l’indottrinamento da setta perpetrato in certe istituzioni. L’educazione diviene un culto spietato senza empatia per il prossimo che manipola la percezione della realtà. – Joaquín del Paso
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