Spencer, una favola basata su una tragedia vera

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“Una favola basata su una tragedia vera”, così si apre Spencer di Pablo Larraín, il biopic su Lady Diana presentato in concorso alla 78ª edizione del Festival di Venezia. Con questa breve frase, il regista mette subito in chiaro che il film non vuole essere uno di quei biopic che seguono pedissequamente tutti gli eventi della vita del personaggio di turno, al contrario vuole essere il più allegorico e cinematografico possibile. A questo scopo viene fatta una ricostruzione personale e intima della vita di Diana descrivendo un singolo evento, centrale per la sua vita: le vacanze di Natale 1991, trascorse con la famiglia reale nella Sandringham House, nelle quali prenderà definitivamente la decisione di divorziare dal principe Carlo.

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La “favola” raccontata da Larraín in Spencer ha la forza di descrivere un personaggio complesso come quello di Diana in poco tempo, anche a chi – come me – non è mai stato avvezzo ai gossip della famiglia reale inglese, né si è mai interessato troppo alla vicenda, conoscendo solo i fatti della tragedia. Poiché il focus è sulla psiche di Diana, il film viene posto quasi come fosse un thriller psicologico in stile Shining, nel quale la casa di campagna della famiglia reale diviene un luogo maledetto e spettrale al pari dell’Overlook Hotel. “Nessuno può fuggire dalla tradizione”, questo dice Lady D. ai suoi figli in uno dei pochi momenti di intimità che ha con loro, nei quali riesce ad essere sé stessa ed acuire tutte le ansie e paure della sua vita a corte.

È infatti lo stile di vita da “reale” che sta troppo stretto a Diana, un benessere eccessivo relegato tra mille regole non dette e piani già orchestrati per tutti i membri della famiglia, arrivando perfino a imporre a tutti l’utilizzo di determinati vestiti in determinate occasioni, senza possibilità di scelta. Ogni passo che la protagonista compie nella casa reale è un passo sbagliato, perché non va nella direzione che è già stata predeterminata per lei, finendo per inimicarsi la maggior parte dei familiari acquisiti. Anche il “gioco dei troni” presente in ogni corte è un’ulteriore pressione che la protagonista ha sulle spalle, non riuscendo mai ad avere nessun appoggio e vedendosi fare terra bruciata attorno, con i reali che cacciano la sua unica vera amica e confidente, la domestica Maggie, solo per non permetterle di agire come vuole.

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L’inferno sfarzoso raccontato da Larraín è fotografato come se fosse all’interno di una vecchia Polaroid, dai colori sbiaditi per la troppa luce a cui è stata esposta, e rinchiusa in uno spazio focale più quadrato che rettangolare. La regia segue sempre la bravissima Kristen Stewart (nel ruolo della vita) cambiando in base allo stato d’animo della stessa, passando da macchine a mano cinetiche fino a inquadrature statiche Tarkovskijane ricche di simbolismi. Il tutto è coadiuvato dalla colonna sonora di Jonny Greenwood che per la prima volta aggiunge dei tocchi free jazz alle sue orchestrazioni, inserite magistralmente nei punti in cui Diana sembra collassare psicologicamente.

In ogni caso sono le metafore la parte più grande e importante di Spencer, con una costruzione che ricorda molto quella del cineasta russo già citato, soprattutto nel film Lo Specchio, dal quale Larraín ruba anche alcune inquadrature. “L’impossibilità” della vita del fagiano, nato in gabbia e allevato per morire durante le battute di caccia, o il parallelismo che la stessa Diana fa tra sé stessa ed Anna Bolena sono solo alcune delle scelte stilistiche del regista con cui, grazie alla sua messa in scena, riesce a rendere interessante un film che non rinuncia neanche a determinati sottotesti politici e sociali. Diana è sempre stata “la principessa del popolo”, ma il popolo vero, tra cui la servitù della Sandringham House, come vive veramente? Questo suo appellativo serve davvero a qualcosa, o non si può fare nulla per loro? Anche solo il cartello posizionato nella cucina potrebbe offrire una chiave di lettura: “Fate silenzio, non volete che sopra vi sentano”.

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Il bello di Spencer si trova anche nella sua descrizione di come un ambiente tossico possa influire sulla psiche di una persona, andando a creare una spirale discendente dalla quale diventa impossibile uscire, una situazione che si può facilmente estendere anche ad altri contesti. I reali sono quasi sollevati dalle diagnosi di “malattia mentale” di Diana, vogliono che lei sia ostracizzata per il suo comportamento. La vita a corte non è adatta per una ragazza di campagna che voleva solo fare da madre ai propri figli.

Sarà Maggie, infine, a mettere il punto con una delle frasi più significative del film: “Fuck doctors, all you need is love, shock and laughter“. Una vita normale, insomma, che negli ultimi istanti del film non può che far scendere una lacrima per il suo futuro che noi, purtroppo, già conosciamo. Perché non tutte le favole, per quanto assurde sembrino, finiscono con un lieto fine.

Lorexio Articoli
Professare l'eclettismo in un mondo così selettivo risulta particolarmente difficile, ma tentar non nuoce. Qualsiasi medium "nerd" è passato tra le sue mani, e pur avendo delle preferenze, cerca di analizzare tutto quello che gli capita attorno. Non è detto che sia sempre così accurato però.

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