Capisco perché i morettiani si siano indiavolati dopo aver visto Tre Piani, il nuovo lungometraggio di Nanni Moretti uscito direttamente dalla 74ª edizione del Festival di Cannes, il primo non derivato da un soggetto originale. Perché con questo film, Nanni porta a compimento una lunga e dolorosa operazione iniziata dopo Caro Diario e che, più o meno sottilmente, ha agito per sottrazione in anni e anni di produzione. Il risultato è che, in Tre Piani, Moretti non c’è, e sorprendentemente è giusto così.
Ogni tanto bisogna pur cambiare pelle, bisogna pur spegnere una luce e accenderne un’altra. Dopotutto, questo ce lo racconta anche un po’ la scena d’apertura del film, una cannonata di eventi che colpisce in pieno lo stomaco: morte e vita, fine e inizio, caduta e rinascita. Però, ecco, capisco la sorpresa, e i giornali arrotolati e gettati a terra in modo stizzoso, dei tanti che si aspettavano la classica impronta autoriale del regista.
Tre Piani racconta le vicende di quattro nuclei familiari, tutti appartenenti a una vetrina d’umanità che è un appartamento, vetrina che viene letteralmente distrutta nei primi minuti di racconto. L’appartamento è su tre piani, per l’appunto. Andiamo con ordine e partiamo dal trittico composto da Vittorio (Nanni Moretti), Dora (Margherita Buy) e Andrea (Alessandro Sperduti), che si industriano nella difficile ricerca di un equilibrio familiare assolutamente impossibile. Ed è assolutamente impossibile perché sono la chiara incarnazione delle tre inconciliabili parti dell’essere. Vittorio, giudice incorruttibile e dai valori morali altissimi, è un Super-ego dalle scarne capacità emotive, sempre al servizio di qualcosa di altro, di supremo, di eccelso. Andrea, con il quale il conflitto è inevitabile, è puro Es, le regole non gli si applicano, segue la pancia, sbaglia (eccome se sbaglia!) e reagisce con i pugni stretti. A tentare una mediazione tra le due pulsioni c’è Dora, l’Ego, una delle tante figure femminili salvifiche del film, l’ago della bilancia ma anche la parte contesa (inizialmente) tra marito e figlio.
Spostiamoci su un altro piano. Qui troviamo Lucio (Riccardo Scamarcio), sua moglie Sara (Elena Lietti) e la loro figlioletta Francesca. A causa della frenesia della vita, la coppia si trova costretta a lasciare, di tanto in tanto, la figlia ai dirimpettai Renato (Paolo Graziosi) e Giovanna (Anna Bonaiuto), marito e moglie. Renato è “un po’ guasto”, come dice ogni tanto Francesca, a indicare che sta scivolando nell’antipatica senilità. L’evento che mette in moto la loro struttura narrativa è lo smarrimento di Francesca e Renato, ritrovati soli in un bosco, di notte. Non sappiamo cosa sia successo tra i due, ma Lucio non può tollerare il dubbio.
Forse proprio in questa parte narrativa capiamo la differenza tra i personaggi maschili e femminili del film: gli uomini non cambiano mai, ristagnano nelle loro incertezze, ne diventano schiavi e distruggono tutto intorno a loro. Il gioco poi si ribalta con l’entrata in scena di Charlotte (Denise Tantucci), ma questo nuovo personaggio andrà solo, in qualche modo, a consolidare i sospetti di Lucio che rimane ancorato a una ragione tutta personale.
Spostiamoci ancora di un piano, l’ultimo. Qui troviamo Monica (Alba Rohrwacher) che ha appena partorito. È sola: il marito, Giorgio (Adriano Giannini), è sempre fuori casa per lavoro. La solitudine, e un fantasma ereditato dalla madre in clinica, si fanno sentire giorno dopo giorno. Seguiamo i suoi passettini per arrivare a fine giornata, nella routine di mamma e di donna in perenne attesa, quasi una vedova. Passettini che sono seguiti da un grosso corvo nero, uccellaccio del malaugurio che la guarda, statico, appollaiato sullo schienale di una sedia. Un passato apparentemente misterioso tra il marito e il cognato aleggia, come un pesantissimo mai detto. Sottilmente, si insinua nella narrazione il pericoloso dubbio di realtà.
L’aspetto affascinante del film è lo scambio di ruoli in atto tra i personaggi. La vittima diventa il carnefice, l’oppressore diventa l’oppresso e poi il liberato, la madre diventa la fuggitiva, il bambino l’adulto. I confini spariscono, tutto cambia, appassisce o sboccia.
Tre Piani rappresenta un taglio netto con tutto quello che ha fatto Moretti finora. Scordatevi la goliardia dei suoi primi film, scordatevi quella violenza ribelle dei suoi secondi film e scordatevi anche la seria drammaticità dei suoi ultimi. Qui siamo in un regno nuovo e inesplorato, cupo, dove le conquiste sono piccole, ma importantissime e commoventi, come un vestito a fiori mai potuto indossare. E quando tutto trova la sua conclusione, la sensazione è quella che sia una conclusione reale, umana, e la sentiamo vicina.
La standing ovation di Cannes è giustificata: non tanto perché Tre Piani sia un film magnifico, un capolavoro, ma perché siamo davanti a un cineasta che, a 68 anni, ha voluto e saputo reinventarsi.
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