Per la prima volta mi trovo in difficoltà e non so esattamente come approcciare una recensione; Titane non è un film facile e rende la vita difficile a chi deve parlarne. La soluzione più “comoda” – se così vogliamo definirla – sarebbe non parlarne come di un film ma come una vera e propria esperienza. Può sembrare una risposta furba (quasi ruffiana), ma spero che più avanti sarà chiaro il motivo. Di per sé la trama è anche piuttosto semplice, e ben illustrata già nel trailer dell’opera di Julia Ducournau, qui autrice a tutto tondo in quanto regista e sceneggiatrice.
Alexia è una ragazza instabile, che ha enorme difficoltà a stabilire legami di qualunque tipo; un trauma nella sua infanzia l’ha resa schiva e violenta, impossibile da gestire perfino per i genitori. Nei primissimi minuti di film, infatti, capiamo il perché del titolo: Alexia ha avuto un terribile incidente e le è stata impiantata una placca di titanio in testa. Dovrebbe essere innocua, una presenza invisibile nel suo corpo – eccezion fatta per la cicatrice – ma la bambina accusa da subito un atteggiamento a dir poco peculiare; la sua unica passione diventano le auto, con le quali instaura un rapporto morboso. Sarà proprio quest’insano amore a cambiarle per sempre la vita – oltre, ovviamente, al suo implacabile istinto omicida.
Sebbene l’incipit appena illustrato possa far pensare ad un body horror – così è stato definito a più riprese subito dopo la sua vittoria a Cannes – Titane è in realtà un film impossibile da collocare davvero. Si tratta di un lavoro sfaccettato, che oscilla tra il dramma, la fantascienza e l’orrore nel senso più letterale del termine; tutto il lavoro fatto da Julia Docournau, infatti, mira a provocare ribrezzo nello spettatore. A cadenza piuttosto regolare l’autrice propone scene più che violente, quasi disgustose, difficili da osservare per intero; in più occasioni mi sono ritrovata a distogliere lo sguardo incapace di proseguire con Alexia il suo malato viaggio verso la distruzione, a volte anche autoindotta.
Ciò che colpisce maggiormente però, nonostante alcune pecche nella sceneggiatura, è l’incredibile equilibrio con cui i generi appena menzionati giocano ad alternarsi sullo schermo, in una malsana staffetta. A completare il quadro, poi, contribuisce anche un cupo e grottesco senso dell’umorismo, che coglie di sorpresa in più punti; in mezzo a tanto dolore e violenza, Julia Docournau riesce a strappare una risata allo spettatore, ma solo brevemente, prima di catapultarlo di nuovo nell’inferno privato di Alexia.
Le emozioni, dunque, si alternano senza soluzione di continuità, proponendo un’esperienza a tutto tondo; si soffre insieme alle vittime della protagonista, ma allo stesso tempo si ride con lei per i tragicomici eventi in cui spesso incappa. Questo, tuttavia, non è sufficiente a stabilire un legame con Alexia e si crea un divario tra lei e lo spettatore impossibile da colmare. L’autrice non ha scritto la protagonista perché si potesse empatizzare con lei – come accade nella maggior parte dei film – ma, al contrario, perché si potesse creare un vuoto; ci si ritrova a giudicare le azioni di Alexia, mentre si sviluppa una curiosità morbosa – almeno quanto il film stesso – nei confronti delle vicende raccontate dalla Docournau, senza essere influenzati dall’immedesimazione. Si tratta di un equilibrio arduo da raggiungere, ma che l’autrice fa sembrare semplice, e forse anche questo ha contribuito alla sua vittoria a Cannes. Senza dubbio, il merito della vittoria è da imputare anche al linguaggio innovativo della pellicola, dato proprio dalla commistione di generi che ha dato vita ad una trama se non altro originale. Che il film piaccia o meno, Titane è senz’altro qualcosa di inedito, ed è questa la sua maggiore attrattiva.
Solo un dettaglio di questa grottesca esperienza rende il film meno efficace del previsto (non si tratta più di uno spoiler visto che un risentito Nanni Moretti ha già commentato il plot twist principale del film): la gravidanza della protagonista. Siamo nell’ambito della pura fantascienza – non saprei che altra definizione trovare – ma anche inquadrando l’evento in questo contesto è impossibile credere che Alexia riesca a nascondere la pancia fasciandola per tutta la durata del film. Un’ingenuità, questa, che però si inserisce nel contesto di un film sul quale farsi troppe domande è impossibile. Per qualche assurdo motivo, dunque, si riesce a perdonare perfino questa pecca, lasciando che la sospensione dell’incredulità faccia il suo corso.
In ogni caso se anche per questo la pellicola dovesse ipoteticamente perdere mezzo punto sulla votazione finale, lo recupera con tutti gli altri elementi valutabili. Il lavoro svolto da Julia Docournau, dal punto di vista registico, è assolutamente incredibile; la macchina da presa riesce a sottolineare alla perfezione ogni esigenza di scrittura, risultando invasiva e morbosa lì dov’è necessario provocare shock nello spettatore, e rendersi invece di gran lunga più dinamica quando Alexia impazzisce e dà sfogo alla sua vena più violenta. Accanto a questo colossale lavoro, inoltre, interviene una fotografia adatta in ogni circostanza: patinata nei momenti di interazione tra la protagonista e le auto – come fosse effettivamente romanticizzato anche a livello estetico il suo insano amore – e iperrealista, alla maniera dei migliori registi francesi, in tutto il resto dell’opera.
A chiudere questo cerchio quasi perfetto intervengono poi gli attori, di una bravura che oserei definire più unica che rara. Agathe Rousselle, protagonista indiscussa del film, è a dir poco magnetica in ogni momento; benché sia impossibile empatizzare con Alexia, l’interprete riesce a far sì che lo spettatore non le tolga quasi mai gli occhi di dosso, fatta eccezione per le scene che a mio avviso, come accennato, sono state più difficili da guardare. Il divario emotivo si colma infatti proprio grazie alla sua eccellente dote comunicativa, tanto fisica quanto espressiva.
Anche se potrebbe sembrare un po’ ruffiano – ma lo avevo anticipato all’inizio della recensione – non mi sento di dare un giudizio vero e proprio sul film. Impossibile definirlo bello o brutto, per quanto comunque realizzato bene in ogni suo aspetto; si tratta di un’esperienza e come tale lascia qualcosa, anche se di indecifrabile. È proprio questo il suo punto di forza: creare un nodo impossibile da sciogliere nella mente dello spettatore. Un film, molto spesso, è più positivamente qualificabile quando crea una discussione, un contraddittorio, e senza dubbio Titane potrebbe riempire un intero manuale con riflessioni sul suo conto, senza però, di nuovo, arrivare ad un giudizio definitivo e universale.
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