Tra i grandi maestri dell’animazione giapponese moderna spesso ci si dimentica dell’esistenza di Mamoru Hosoda, regista con esperienza ormai pluriventennale che, dopo aver diretto progetti televisivi sui Digimon, ha fatto il suo esordio al cinema con il sesto film tratto dalla saga di One Piece, L’Isola Segreta del Barone Omatsuri. L’anno dopo è iniziata la sua collaborazione con la sceneggiatrice Satoko Okudera che lo ha portato a realizzare film sempre più autoriali, fino alla fondazione nel 2011 dello Studio Chizu e il raggiungimento della totale indipendenza a partire dal film The Boy and the Beast, del 2015. Questo suo ultimo lavoro, Belle, è stato presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Cannes e rappresenta probabilmente la summa poetica ed estetica del regista, contrapponendo la staticità e l’introspezione in animazione 2D all’azione e la creazione di immaginari fantastici con l’animazione 3D.
Belle racconta la storia di Suzu, ragazza di periferia timida e schiva, la cui madre è morta quando era ancora piccola cercando di salvare una bambina sconosciuta sull’argine di un fiume in piena. Questo evento l’ha portata ad avere sempre meno fiducia in sé stessa, non comprendendo per quale motivo la madre si sia voluta “suicidare” per qualcuno che neanche conosceva, invece che rimanere con lei. A casa non riesce più a parlare nemmeno con il padre e la sua unica amica a scuola è Ruka, che le consiglia di provare il nuovo social “U“, una sorta di metaverso in cui vivere una vita alternativa (evoluzione e update, come ha detto lo stesso regista, del discorso da lui iniziato con Our War Game e Summer Wars). Qui Suzu può dimenticare i problemi reali e dedicarsi unicamente alla sua passione, il canto (che aveva brutalmente interrotto dopo la morte della madre), il che la porta a diventare improvvisamente una celebrità, sotto lo pseudonimo di Belle.
Hosoda in tutti i suoi film ha sempre cercato di scandagliare i rapporti interpersonali, provando a capire cosa li renda così complessi e misteriosi, soprattutto quando si hanno traumi alle spalle o si vivono realtà particolari. In Belle la presenza di una realtà virtuale così importante rende questi rapporti ancora più complessi, perché basati completamente sull’apparenza, su un’immagine falsa di sé che si propone agli altri. Non è infatti un caso che questa pellicola sia un retelling de La Bella e la Bestia, in cui però anche l’immagine della bella nasconde in realtà qualcosa di diverso, essendo solo una bellezza apparente data da un avatar virtuale. Muovendosi su questo doppio binario il regista, quando introduce il Drago che tormenta U, cioè la bestia, ci rende partecipi della caccia alla sua identità, volendo ad ogni modo conoscere chi si cela sotto la maschera virtuale, e quali siano le sue reali motivazioni.
È interessante notare come la “polizia” di U, oltre ad agire come organo autonomo, non essendo ufficialmente riconosciuto, per catturare la bestia non voglia fare altro che svelare la sua vera identità a tutto il mondo, vista come una pena capitale. Il tribunale da social viene ben rappresentato dal regista, in un mondo pronto a mandare alla gogna mediatica chiunque non segua le direttive del programma, additandolo come criminale e scatenandogli addosso tutta l’utenza, sempre pronta a farsi influenzare. Ma la comunità rimane, nonostante questo, uno dei punti cardine della poetica del regista. È vero che le grandi masse possono farsi influenzare da qualsiasi cosa, ma è anche vero che un singolo elemento, pur smuovendo i cuori di molti, non può nulla senza l’aiuto degli altri. Sono le piccole comunità, per Hosoda, la forma migliore di convivenza possibile, nelle quali ognuno conosce altre persone e si interessa davvero a loro, aiutandole nel momento del bisogno.
Il mondo virtuale, qui sempre più impregnato con quello dei social, dovrebbe essere usato dalla comunità per connettersi con gli altri e aiutare anche chi non si conosce, potendo raggiungere luoghi lontani senza sforzo. Il punto principale di Hosoda nel trattare questo tema è proprio questo: il connettersi agli altri in modo genuino e interessato, usando internet per estendere la nostra empatia e non il nostro ego. Purtroppo la sfarzosità con cui è rappresentato U ci suggerisce che l’utilizzo che se ne fa è molto più legato all’espressione personale rispetto che al bene comune, e questo porta inevitabilmente a generare “bestie” il cui aspetto è molto più umano di quello che potremmo immaginare, nascondendo il marcio dietro una figura pulita e amichevole. È la vittoria della forma sulla sostanza.
Proprio per questo motivo, Belle è forse il film tecnicamente più elevato di Hosoda, e vanta anche la collaborazione di Tomm Moore e il suo studio, che hanno dato una mano nella realizzazione di U per sdebitarsi della campagna pubblicitaria fatta da Hosoda per il loro Wolfwalkers in Giappone. Se per il mondo virtuale si mostrano i muscoli di un’animazione 3D avanguardistica e spettacolare per uno studio giapponese, per il mondo reale l’animazione 2D è perfetta, pur rappresentando una periferia giapponese spoglia e malinconica. Belle è “il film degli eccessi” del regista, nel quale la dualità tra gli elementi che lo compongono è sempre super accentuata per rappresentare il distacco tra le diverse realtà. Quando Belle torna Suzu tutto si fa più calmo, tranquillo, ma non per questo prevedibile. Anzi, nella sua linearità, quella rappresentata è una realtà imprevedibile a dispetto di un mondo virtuale sì caotico e sfavillante, ma nel quale i meccanismi sono facilmente comprensibili.
Nella sua messa in scena della realtà, Hosoda si avvicina molto a Hideaki Anno per l’utilizzo di lunghe inquadrature fisse ed il focus più sull’interiorità dei personaggi, strizzando l’occhio spesso anche a Yasujiro Ozu, soprattutto nel rappresentare gli esterni. È cinema che vuole trasmettere un senso di appartenenza a qualcosa di più grande, che sarebbe possibile anche grazie a mezzi di comunicazione sempre più efficienti, ma sempre più votati all’individualismo. Esemplare la scena in cui si vedono migliaia di pagine internet aperte con altrettante live streaming di persone diverse, ognuna con 1 o 2 spettatori, segno della voglia di espressione forzata che certi meccanismi inculcano, senza però mai dare una possibilità all’ascolto dell’altro. Nell’epifania finale di Suzu, plot twist “morale” della storia, nel quale la protagonista riguarderà la sua vita sotto una lente diversa, Hosoda vuole dirci di ritrovare la nostra empatia, di aprirci agli altri (magari anche rischiando un po’ di noi stessi), essendo la connessione vera con altre persone la cosa più importante che abbiamo.
Belle è quindi un film importante, non solo per lo Studio Chizu, ormai arrivato a livelli qualitativi estremi, ma anche per il messaggio che vuole trasmettere, riuscendo a trasformare i social in qualcosa di potenzialmente utile per la collettività, se usati nel modo corretto. Inoltre la musica di Suzu/Belle, che fa breccia nei cuori di tutti gli utenti – ma anche del pubblico in sala – e cerca di smuovere le coscienze, è un segno che sia scritta da Ludvig Forssell, lo stesso compositore di Death Stranding, che si faceva già portatore di messaggi simili.
L’ultima fatica di Hosoda è un viaggio spettacolare e intimo, forse un po’ confuso in alcune parti, ma che riesce a trasmettere quella confusione che è parte integrante della vita stessa. Belle sarà ufficialmente al cinema dal 20 gennaio 2022 grazie ad Anime Factory e I Wonder Pictures, ed io non posso che consigliarvi di andare a vederlo e farvi rapire da questa bellissima opera.
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