Tra i partecipanti più attesi della Selezione ufficiale alla 16ª Festa del Cinema di Roma, C’mon C’mon del regista indipendente Mike Mills è un’opera letteralmente andata a ruba in occasione delle prime proiezioni; fenomeno molto probabilmente imputabile alla presenza di un sempreverde Joaquin Phoenix (Her, Vizio di forma, Joker) nel cast o alla distribuzione targata A24, studio che quest’anno – come sempre – ha sfornato titoli di un certo peso. Basti pensare al recentissimo Lamb di cui ho parlato qualche giorno fa.
Anche qui la semplicità è di casa per quanto riguarda la storia narrata: Johnny (Joaquin Phoenix) è un giornalista radiofonico di buon cuore, ma solo ed emotivamente inaridito, impegnato in un esperimento di cronaca – reso nel film con la forma del mockumentary – che lo porta a viaggiare attraverso gli Stati Uniti per intervistare bambini e adolescenti di ogni etnia ed estrazione sociale. Lo scopo è documentare, attraverso conversazioni oneste e innocenti, il pensiero dei giovani riguardo il mondo odierno e il futuro, lasciando esprimere liberamente ogni intervistato.
Un giorno Viv, la sorella del protagonista interpretata da una Gaby Hoffmann davvero lodevole, gli chiede di badare al figlio Jesse (Woody Norman) di otto anni, mentre lei si prende cura di Paul (Scoot McNairy), il padre del bambino, un uomo affetto da pericolosi disturbi mentali. L’inaspettato e tenero legame che si viene a creare tra zio e nipote – orchestrato attraverso un’odissea che va da Los Angeles a New Orleans, passando per New York – è quindi il fulcro del lungometraggio.
Poiché Mike Mills mette molta carne al fuoco, in questa recensione procederò per blocchi, concentrandomi prima di tutto sui veri punti di forza della pellicola: gli attori e la sceneggiatura. Tra le punte di diamante del cast abbiamo, ovviamente, il nostro caro Joaquin Phoenix che qui – ricoprendo anche il ruolo di narratore interno – dimostra ancora una volta di essere una star esperta, versatile e capace di risultare assolutamente credibile nella maggior parte delle vesti. Il suo personaggio deve scendere a patti con due distinte situazioni: la prima coinvolge Viv; con lei ha tagliato i ponti quasi del tutto, a causa della dolorosa morte della madre (evento a dir poco autobiografico per l’autore del film che ha perso la sua per un tumore). Johnny tenta quindi, mettendo a latere i dissapori passati con uno sforzo empatico non da poco, di riallacciare i rapporti con la sorella. Come se non bastasse, l’uomo soffre ancora per una ferita aperta: la separazione dalla sua compagna Louisa (una probabile strizzata d’occhio a Her di Spike Jonze).
La seconda questione che il giornalista affronta è proprio il suo nuovo lavoro di babysitter: un confronto/scontro generazionale da manuale in cui lo zio Johnny e lo strano ed eccentrico Jesse, attraverso il continuo dialogo, impareranno ad immedesimarsi l’uno nel mondo dell’altro. Solitudine, gestione delle emozioni, il turbine dell’adolescenza e il rapportarsi col prossimo sono solo alcuni dei grandi e complessi temi messi sul piatto dall’autore (che insieme alla regia firma anche lo script).
A proposito di Jesse, Woody Norman porta in scena – con mia piacevolissima sorpresa – una performance encomiabile per la sua età, e senza avere alle spalle ruoli di rilievo a parte Dash in Edison – L’uomo che illuminò il mondo. In questo, il regista mostra di saper essere un ottimo direttore di attori. Il bambino è una scheggia fuori controllo: lo odi ma lo ami per ciò che sa restituire sullo schermo, per le sue piccole follie e le sue battute che donano alla narrazione il giusto pizzico di comicità che distende i nervi.
La suddetta narrazione tiene ancorati alla sedia grazie all’attenzione posta nel raccontare ogni evento con spiccato realismo, sincerità e delicatezza (gli spettatori dalla lacrima facile si considerino avvisati). Quest’ultimo dato non sia però fuorviante: C’mon C’mon è rivolto sia ad un pubblico adulto, sia ai giovani; ognuno saprà cogliere le sfaccettature che gli competono.
Quanto a Paul, il povero padre del ragazzino, questi è letteralmente andato in tilt a causa del mondo odierno che si muove fin troppo velocemente. Non è più capace di entrare in sintonia con chi gli sta vicino né di percepire sé stesso: è interessante notare un certo parallelismo tra il suo disastroso quadro mentale e la psicologia degli altri comprimari. All’approfondimento di quest’ultima, per forza di cose, viene riservata una cura particolare.
Venendo al lato tecnico, il lungometraggio si attesta su livelli eccellenti. La mano di Mills conduce la macchina da presa in maniera posata, e non potrebbe essere altrimenti. Il montaggio spesso e volentieri alternato, tuttavia, fornisce alla storia un passo meno contemplativo di quanto ci si potrebbe aspettare, condensando efficacemente vari avvenimenti in poche sequenze, senza perdersi in lungaggini superflue. Si potrebbe dire che l’incedere della trama segua il carattere esuberante dello stesso Jesse. Gli elementi estetici si incastrano come perfetti ingranaggi e collaborano affinché il flusso della pellicola sia quanto più possibile esente da sbavature.
Nello specifico, si potrebbe citare la colonna sonora ad opera dei fratelli Aaron e Bryce Dessner, entrambi membri della band The National. Si tratta di un lavoro piacevolmente eterogeneo e ben adattato alle immagini, che unisce musica leggera virata sull’elettronica e musica classica (Jesse è un patito di Mozart). Mi piace sottolineare come una versione riarrangiata del Clair de lune di Debussy – tra i miei brani preferiti in assoluto – sia stata utilizzata nei frangenti più toccanti.
Un plauso va poi alla fotografia di Robbie Ryan (La favorita, Storia di un matrimonio): un bianco e nero magnifico, allegoria – forse – di uno spettro emotivo ormai sterile come quello di Johnny e della contemporaneità in cui è immerso. Può darsi che Mike Mills voglia esortarci a ridare colore alle nostre vite tramite l’empatia o la ricerca di armonia tanto citate. D’altronde, come la sceneggiatura ci insegna, “è ok non essere ok. Non c’è nulla di male nel sentirsi smarriti e confusi“.
C’mon C’mon è un’opera molto ancorata alla realtà, un racconto cristallino, terreno, umano. Certo, il suo autore ha il vizio di creare drammi che si lasciano andare ad una rilassatezza che stona in certi punti – si prendano ad esempio Beginners o Le donne della mia vita – e questa storia non fa eccezione. Ogni tanto la lentezza generale distoglie dalla grande profondità dei dialoghi e dalla bravura di tutti gli interpreti, ma credo fermamente che in questo specifico caso si possa chiudere un occhio.
La cinematografia degli ultimi tempi si è concentrata molto sul restituire il punto di vista delle giovani generazioni; il cinema odierno parla spesso di futuro, di gioventù: Belfast di Kenneth Branagh alla Festa del Cinema di Roma, ed È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino a Venezia, ce lo mostrano. Se anche voi lettori desiderate addentrarvi in tematiche così delicate e affascinanti, non esitate a partire per il lungo viaggio di Johnny e Jesse.
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