The French Dispatch

the french dispatch wes anderson recensione

Voto:

Nel cinema moderno è sempre più complicato trovare registi con uno stile personale e riconoscibile, ma Wes Anderson rappresenta sicuramente una grande eccezione. Con 25 anni di carriera alle spalle e arrivato ora al decimo film, lo stile del regista si è sempre più evoluto ed estremizzato, riuscendo però a rimanere fedele alla sua filosofia di base, alle sue ossessioni e tratti distintivi, migliorando sempre di più a livello tecnico.

Con The French Dispatch siamo infatti di fronte al picco espressivo massimo raggiunto visivamente da Anderson, che grazie alla sua fitta schiera di amici e collaboratori riesce a portare a casa una pellicola del genere con “soli” 25 milioni di dollari di budget, che è anche il secondo più alto di tutta la sua filmografia. Dovrebbe bastare questo per considerarlo davvero un artigiano – data anche la mole impressionante di modellini utilizzata nei suoi film – capace di utilizzare ogni centesimo a disposizione per rendere le sue opere perfette e sempre personalissime.

the french dispatch palazzo sede

The French Dispatch continua la destrutturazione narrativa già avviata con Grand Budapest Hotel, nel quale proprio l’atto di raccontare la storia era al centro della vicenda con i suoi infiniti piani narrativi. Questo film invece, parlando di “The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun“, una divisione della testata americana stabilitasi in pianta stabile nel (fittizio) paesino francese di Ennui-sur-Blasé, è strutturato in sezioni proprio come se si stesse sfogliando la rivista.

L’incipit è molto semplice: Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), il fondatore del Dispaccio Francese, muore per un attacco cardiaco e tutta la redazione decide di chiudere la rivista con un numero commemorativo, che ripercorre la loro storia e nel quale vengono riproposti i loro tre articoli più significativi. Inizia così la divisione del film, mostrando prima la nascita della rivista e la descrizione del paesino con l’episodio The Cycling Reporter di Herbsaint Sazerac (Owen Wilson), per poi arrivare alle tre storie principali.

the french dispatch redazione

The Concrete Masterpiece di J.K.L. Berensen (Tilda Swinton) parla del pittore assassino Moses Rosenthaler (Benicio del Toro) che in prigione, grazie alla guardia Simone (Léa Seydoux) a fargli da musa, è diventato uno degli artisti più celebrati della Francia.

Revisions to a Manifesto di Lucinda Krementz (Frances McDormand), descrive l’esperienza della giornalista con i moti rivoltosi del ’68 e soprattutto con il giovane Zeffirelli (Timothée Chalamet), intento a scrivere un Manifesto per i diritti studenteschi.

The Private Dining Room of the Police Commissioner di Roebuck Wright (Jeffrey Wright), racconta di come il redattore, improntato alle rubriche di cucina, si sia trovato invischiato in una storia criminale tra rapitori (Edward Norton) e sparatorie, mentre cercava solo di realizzare un reportage sulla cucina “poliziesca”.

In conclusione poi abbiamo un commiato da parte della redazione per Howitzer Jr. e tutta la rivista. 

the french dispatch bill murray

Il film è intensamente dialogato, in pieno stile Wes Anderson, e a farla da padrone ancora una volta sono le scenografie volutamente artificiali, costruite in modo da implementare benissimo modellini in stop-motion e persone reali. Se in Grand Budapest Hotel la maggior parte delle scene in animazione passo 1 erano relegate agli esterni, spesso senza personaggi, in The French Dispatch l’animazione arriva ad interessare tutta la messa in scena. Oltre alla classica simmetria, infatti, non mancheranno scene concitate gestite registicamente come delle diapositive, con i soggetti fermi ad eseguire le proprie azioni. La finzione per il regista non è motivo di scherno, anzi, è un modo ancora più alto di esprimersi in modo personale, riuscendo a conferire alla pellicola un maggior senso di straniamento, ma allo stesso tempo di immersione, in queste storie surreali ma plausibili.

Per la prima volta da anni, Anderson torna ad usare la macchina a mano in alcune piccole sequenze, soprattutto in Revisions to a Manifesto dove avanza barcollando, probabilmente per testimoniare anche l’instabilità emotiva e le incertezze dei giovani del tempo. Il film inoltre è per il 70% girato in bianco e nero, per entrare ancora di più nell’epoca, e trova il colore solo nelle sequenze che riguardano la redazione del French Dispatch e nelle poche scene in cui si prende la soggettiva dei personaggi nelle storie, nelle quali l’empatia dell’articolista riesce a comprendere completamente i soggetti di cui stanno scrivendo, oppure nei rari momenti in cui è l’arte, in ogni sua forma, a dominare la scena.

the french dispatch commissariat

L’operazione che Wes Anderson compie questa volta, oltre che essere dichiaratamente un atto d’amore verso il lavoro dei giornalisti, è un’attenta ricerca sociologica sulle epoche che cambiano, e su come queste possano essere rappresentate in base alle parole di qualcuno che le vede inevitabilmente tramite la sua lente, impossibilitato ad essere oggettivo. La descrizione della società dell’epoca è trattata dal regista con il suo solito piglio umoristico, e le storie surreali sono il cuore di quello che è il suo pensiero, ma anche della sua riflessione. È lui in realtà la redazione del French Dispatch, che sceglie appositamente cosa farci vedere, per darci la sua idea di quel paesino e di quell’epoca. La sua ricostruzione sociologica parla in quel modo perché non può essere altrimenti, e non è detto che dovremmo esserne d’accordo in ogni frangente. Se però il modo in cui sono raccontate le storie riesce anche solo un minimo toccare le nostre corde, è lì che arriviamo all’empatia e all’astrazione di quei concetti, potendo finalmente vedere la verità dietro la finzione, e i colori di cui è composta quest’arte.

C’è una frase particolare pronunciata dal personaggio di Jeffrey Wright come risposta a un’intervista che aiuta alla comprensione del “testo”, nella quale dichiara come il vissuto della persona ne influenzi inevitabilmente gli interessi e il modo in cui si rapporta al mondo. È infatti possibile rintracciare queste schegge di personalità dei giornalisti in ogni racconto, dalla “diapositiva sbagliata” di J.K.L. Berensen all’interesse per la politica di Lucinda Krementz. Queste storie non sono altro che un veicolo per l’espressione personale, un lavoro che lo stesso Anderson fa tramite il suo film. Mette sé stesso per raccontare un’altra storia, che qui sono anche più storie, filtrando sempre di più il contenuto e la forma, come qualsiasi giornalista fa nella sua testata.

the french dispatch personaggi bianco e nero

È lodevole anche la direzione degli attori da parte del regista, che lavora per sottrazione e utilizza stelle hollywoodiane come caratteristi, senza mai creare un protagonista ma solo tanti personaggi che vivono in un mondo folle, ironico e surreale. In questo modo la pellicola sembra ancora di più un mondo a sé, popolato da personaggi che possiamo riconoscere anche per i volti che lo popolano, ma che nel modo in cui lo leggiamo/vediamo ha sempre qualcosa per sorprenderci. È sicuramente un film più complesso da seguire rispetto al resto della filmografia di Anderson, data anche la mole infinta di dialoghi e personaggi, ma l’interesse, come già detto, non è più per una storia dall’inizio alla fine, ma per come le storie vengono narrate e perché. È questa la mentalità che richiede il film.

The French Dispatch è forse il film più personale di Wes Anderson, che esaspera al limite il suo stile (al suo interno c’è anche una scena completamente in animazione 2D, nello stile dei fumetti franco-belgi degli anni ’50/’60) e che si interroga ancora una volta sul perché la nostra specie debba sempre trovare il modo di esprimersi, qualsiasi sia il campo d’azione. È un film originale, fatto col cuore, che non risulta mai ripetitivo o già visto, neanche per i fan più hardcore del regista. Sicuramente lo stile narrativo può straniare un pubblico più generalista non avvezzo ai film ad episodi, ma è incredibile la grazia con cui Anderson riesce a mettere in scena qualsiasi cosa secondo la sua visione, rimanendo probabilmente uno dei pochi registi indipendenti americani che, pur avendo budget più elevati e attori famosissimi, riesce a non farsi mangiare dalla macchina produttiva degli USA. Un applauso, quindi, per una carriera che si spera sia ancora molto lunga.

Un ringraziamento speciale a The Walt Disney Company

Lorexio Articoli
Professare l'eclettismo in un mondo così selettivo risulta particolarmente difficile, ma tentar non nuoce. Qualsiasi medium "nerd" è passato tra le sue mani, e pur avendo delle preferenze, cerca di analizzare tutto quello che gli capita attorno. Non è detto che sia sempre così accurato però.

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.