Charlotte, dei registi Éric Warin (character designer di Appuntamento a Belleville) e Tahir Rana, è un lungometraggio d’animazione franco-belga che ha suscitato poco clamore alla 16ª Festa del Cinema di Roma. La ragione forse è da ricercare nel suo soggetto, che porta in scena la vita di una pittrice tedesca di origini ebraiche – Charlotte Salomon per l’appunto – artista non molto nota al pubblico generalista. La trama del film, quindi, è né più né meno una storia di carattere biografico in cui vengono raccontati i punti salienti dell’esistenza della donna: dal suo primo amore alle svariate tragedie familiari, passando per le numerose angherie inflittele dall’antisemitismo nazista. Ebbene sì, lo sfondo è la Seconda Guerra Mondiale.
Per la precisione, la sceneggiatura della pellicola – scritta da Erik Rutherford e David Bezmozgis – è stata ispirata dalla magnum opus della protagonista, ovvero Vita o Teatro? (titolo originale Leben? oder Theater?: Ein Singspiel) un’enorme serie di 769 dipinti in cui Charlotte ha voluto documentare la sua drammatica esperienza di vita, creando di fatto – stando a molti critici d’arte – la prima graphic novel della storia. Le suddette opere sono corredate da annotazioni e persino accompagnamenti musicali; un vero e proprio copione teatrale. L’obiettivo di Warin e Rana è stato dunque quello di omaggiare questo decennale lavoro sfruttando proprio il linguaggio dell’animazione.
Partiamo subito col dire che il suddetto obiettivo è stato centrato in parte: ciò che, secondo le parole degli autori, “non potrebbe essere mostrato efficacemente con delle sequenze live-action” viene al contrario impreziosito dal digitale che dona all’eredità artistica della Salomon molta vivacità. La sua è una parabola esistenziale moderna – caratterizzata da una spiccata autofinzione – e vicina all’audience femminile odierna. In tutte le sequenze, gli espedienti estetici del film sono basati sul personalissimo stile artistico della pittrice (affine all’Espressionismo tedesco, arte degenerata per i seguaci di Hitler). A questo proposito, lunghe e dispendiose sono state le ricerche storiche effettuate dal team creativo per trasporlo a dovere sul grande schermo; l’attaccamento al realismo, in ultimo, serve a dare una rappresentazione il più possibile fedele e rispettosa dell’Olocausto che, malauguratamente, attanaglia Charlotte.
Molteplici sono le scene del lungometraggio in cui viene mostrata la genesi dei dipinti originali dell’artista – oggi esposti al Joods Historisch Museum di Amsterdam – questi prendono forma in maniera sinuosa e accattivante, in linea con l’estetica generale della pellicola. La stessa dovizia di particolari si può riscontrare nella colonna sonora firmata dal compositore belga Michelino Bisceglia: legata a doppio filo con lo script, essa segue le personalità, il background e il “mondo narrativo” dei personaggi a schermo. Per fare un esempio, la protagonista è una ragazza generalmente solare e gioviale a cui viene associato un tema allegro e incalzante. Insomma, la musica supporta a dovere il comparto emotivo, senza dimenticare l’uso di significativi silenzi.
La narrazione ha come focus sia i rapporti umani tra l’artista e i vari comprimari, sia i modi in cui la vita della donna viene condizionata dal suo essere ebrea. In scena abbiamo figure come Alfred Wolfsohn, un amico di famiglia e presunto amante della protagonista, poi Alexander Nagler, suo futuro marito, l’amica del cuore Ottilie Moore e lo scorbutico nonno, ex-Croce di Ferro e “antagonista“. Il punti di forza della messa in scena sono i momenti più drammatici che si verificano nei posti in cui Charlotte Salomon ha vissuto – dalla Berlino del 1933 a Nizza – al contempo ficcanti e sinceri.
Venendo ai grossi difetti che affossano leggermente il lungometraggio, devo dire innanzitutto che l’animazione non è un granché, anzi sembra proprio fatta a risparmio (capisco che Éric Warin e Tahir Rana siano due cineasti minori, ma c’è un limite a tutto). I fondali dalle tonalità pastello sono, a onor del vero, ben realizzati così come l’illuminazione di certi ambienti; tuttavia l’unione di elementi 2D e 3D dà luogo a risultati tutt’altro che sufficienti: le movenze dei personaggi – soprattutto se si parla dei volti – sono spesso legnose. Ciò, a più riprese, rovina l’immedesimazione. A peggiorare le cose c’è poi un ritmo davvero altalenante: a tirare avanti la narrazione sono solo e unicamente i drammi, nulla più. La violenza che permea le vicende e specifiche tragedie viene volutamente lasciata fuoricampo perché, secondo Warin, “non serve vedere la brutalità, basta sentirla nell’aria“. Inutile dire che non condivido: prendersi un azzardo di più per mostrare certe atrocità avrebbe sicuramente giovato alla potenza della pellicola, sebbene Charlotte miri ad edulcorare il tutto per principio. Le vicende di contorno quindi non possono che essere abbastanza blande.
Persino il doppiaggio, come se non bastasse, inciampa qui e là: i dialoghi e le voci risultano poco ispirati ed emotivamente piatti nei casi più gravi. Non basta la presenza – nella versione inglese – di importanti attori come Keira Knightley (Orgoglio e pregiudizio), Marion Cotillard (Annette), Jim Broadbent (Hot Fuzz, Cloud Atlas), Sam Claflin (Enola Holmes, Ultima Notte a Soho) e Mark Strong (1917, Crudelia) a fornire delle buone interpretazioni, le performance sono tutto sommato dimenticabili.
Questo film d’animazione verrà sicuramente apprezzato dagli appassionati d’arte; alla Festa del Cinema si parlava persino di proiettarlo nelle scuole per rendere giustizia ad una donna insabbiata dalla storia. Un’iniziativa nobile e lodevole, peccato che Charlotte parli apertamente di tematiche delicate come il suicidio e le malattie mentali, per cui sarebbe difficile e probabilmente dannoso rivolgerlo a bambini troppo piccoli (oltretutto non credo che ciò sia nei piani degli autori).
Charlotte Salomon in un’altra era sarebbe stata riconosciuta come un’artista memorabile. Combattendo i suoi demoni ha dato alla luce un progetto folle che fonde le gioie e le nefandezze della sua esistenza. Il messaggio che ci lascia in Vita o Teatro? è “celebrare la vita“, amarla anche se essa non ama noi. Una poetica unica e meritevole di studio, ed è un peccato che l’omaggio che ne è venuto fuori sia così modesto. I registi avrebbero potuto osare molto, molto di più.
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