Nonostante siano passati 84 anni dal primissimo classico Disney, la compagnia di Topolino non ha mai avuto una produzione florida come negli ultimi anni, e così siamo arrivati al 60° classico degli Studios, ovvero Encanto, il secondo di quest’anno dopo Raya e l’Ultimo Drago. Se il film uscito all’inizio del 2021 non mi aveva convinto quasi per nulla, essendo fin troppo didascalico e ricalcando gli stereotipi della caratterizzazione moderna, quest’ultimo invece mi ha sorpreso molto di più in positivo.
Il film è diretto da Byron Howard e Jared Bush, che avevano già collaborato come autori in Zootropolis – il miglior film Disney degli ultimi anni a parer mio – affiancati da Charise Castro-Smith, che ricopre anche il ruolo di sceneggiatrice. Come se non bastasse, anche Lin-Manuel Miranda, autore pluripremiato a broadway per i musical Hamilton e In The Heights, ha partecipato alla stesura della sceneggiatura, oltre a scrivere tutte le canzoni cantate dai protagonisti.
Come infatti potete ben immaginare, Encanto torna alla formula del musical classico, che la Disney raramente ha adottato con i suoi lungometraggi del 21° secolo. Il film, che questa volta va a trattare l’America Latina dal punto di vista della Colombia, parte da un assunto molto interessante: tre generazioni prima della vicenda raccontata, la famiglia Madrigal era parte di una comunità di immigrati colombiani che stavano venendo brutalmente cacciati. Questo gruppo di persone decise quindi di cercare un luogo più sicuro dove stabilirsi, e durante una rocambolesca fuga dalle persecuzioni, il sacrificio di un membro della famiglia generò un miracolo (l’Encanto del titolo), manifestatosi come una candela cerimoniale che non smette mai di bruciare. Questa candela fece spuntare enormi montagne tutte intorno ad un grande appezzamento di terreno, donando a tutta la comunità un luogo tranquillo dove vivere, e benedicendo ogni membro della famiglia Madrigal con dei talenti speciali acquisiti tramite cerimonia, molto simili a dei superpoteri.
Tornando al presente, Mirabel è una delle nipoti di Alma Madrigal (nonna della famiglia che protegge l’Encanto), e ultima persona a cui è stata sottoposta la cerimonia per l’acquisizione del potere, purtroppo senza successo. Mirabel è infatti l’unica Madrigal a non possedere alcuna abilità speciale, e questo preoccupa la capofamiglia, che vuole siano tutti utili per la comunità. La giovane protagonista cerca sempre di mettersi all’opera, ma si sente ovviamente inadeguata di fronte ai poteri dei familiari, che vanno dalla super forza, alla capacità di generare la vita floreale, fino a controllare il meteo o trasformarsi in chiunque. Sarà lei però l’unica a notare che qualcosa non va con l’Encanto, che si sta sempre più velocemente esaurendo, dandosi quindi da fare per cercare di risolvere le cose. La sua sarà però un’impresa solitaria, in quanto la nonna – e la maggior parte dei familiari – non credono alle sue parole, pensando che metta in giro quelle voci solo per farsi notare e sopperire alla mancanza del “dono”.
Se, come successo a me, queste premesse vi hanno instillato il timore di una storia basata sulla solita retorica del “sei speciale anche tu” e “non hai bisogno di un potere, devi essere solo te stessa”, sappiate che per fortuna non è così, e ne sono rimasto piacevolmente colpito. Il rischio di una versione colombiana e “cheap” de Gli Incredibili era dietro l’angolo, ma registi e sceneggiatori qui hanno saputo dimostrare il loro talento, mettendo in scena un film che, pur mantenendo la struttura classica Disney, attacca dall’interno i cliché che hanno minato la narrazione per bambini e ragazzi dell’ultimo periodo.
Uno dei più grandi pregi del film è infatti il modo utilizzato per delineare i protagonisti, che in antitesi con Raya non si focalizza solo sulle loro abilità, ma ne scandaglia anche la psiche, proprio per sovvertire questo modello di caratterizzazione superficiale moderno. Inoltre non si parla solo di dover essere sé stessi, ma soprattutto del peso delle aspettative. Questo permette di tratteggiare quasi tutti i membri della famiglia in modo sintetico ma efficace, e in particolare dando loro tridimensionalità e ambiguità, non ascrivendoli quindi solamente ad un tipo di comportamento standard.
Se dal lato “esistenziale” quindi il miracolo è riuscito, trattando in modo originale un tema eccessivamente abusato in questo genere di storie, sul piano sociale il rischio era di scadere in un “cultural empowerment” totalmente fine a sé stesso e pieno di retorica nazionalistica. Encanto però riesce di nuovo a stupire, non spingendo mai in modo esplicito sulla cultura Colombiana, che invece è usata come contesto, con usi, costumi e tradizioni al servizio di una storia che vuole però essere generale e generalizzabile. Incredibilmente, è il senso di comunità che vuole essere comunicato con maggiore forza, con delle persone che finalmente hanno trovato il loro luogo d’appartenenza, ma che devono capire come fare per mantenerlo. Il miracolo è solo una metafora e un pretesto per creare quella comunità, e i cittadini non devono affidarsi solo a quello come risposta a tutti i problemi, ma impararne, per il bene di tutti.
Registicamente il film è forse il più dinamico dei Walt Disney Animation Studios (e probabilmente anche dell’animazione occidentale), con inquadrature che spesso simulano la macchina a mano che si insinua nel set e continua a seguire i personaggi, girando e muovendosi davvero come mossa da un operatore. Questo valorizza incredibilmente i momenti di musical puro, che sia nella struttura che nella messa in scena “fantastica” ricalcano molto i classici del genere – Singin’ in the Rain, Il Mago di Oz, ma anche i più recenti Moulin Rouge e La La Land – trovando però forza e originalità nei movimenti di macchina. Le canzoni di Lin Manuel-Miranda questa volta sono molto più nel suo stile riconoscibile rispetto a quelle scritte per Oceania, riuscendo a dare pathos ed emotività a tutti i momenti cantati, che siano della protagonista o dei personaggi secondari, anche quelli più di contorno. La canzone Waiting for a Miracle mi ha dato molte vibes alla “Rewind” di Hamilton.
Se il voto che vedete in alto non vi sembra molto in linea con tutti gli elogi che ho fatto al film, probabilmente è per “colpa” del finale. Non che lo abbia trovato brutto, anzi, secondo me è ottimo, ma fallisce nella premessa che poteva creare. Provando a descriverlo senza fare spoiler, quello che è mancato nelle battute finali è stato il coraggio di trasmettere con ancora più forza il messaggio di appartenenza alla comunità e dell’inutilità di essere speciali. Sarebbe bastato tagliare l’ultimo minuto – o approfondire un minimo delle conseguenze diverse – per lanciare Encanto nell’olimpo dei classici moderni, ma purtroppo così non è stato.
Il film rimane comunque una gioia sia visiva che narrativa, e se apprezzate i musical lo sarà ancora di più. È bello vedere la Disney tornare a lavorare su un soggetto interessante, senza banalizzarlo nascondendosi dietro il dito della favola per bambini, ma confezionando, come negli anni migliori, una pellicola capace di emozionare sia i più grandi che i più piccoli, affascinando e lasciando un insegnamento. Speriamo che nel futuro degli Studios ci siano più Encanto e meno Raya.
Un ringraziamento speciale a The Walt Disney Company
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