Siamo nella prima metà degli anni ’60. Sergio Leone si fa mandare sul set questo ragazzotto, che era un po’ troppo pulito per incarnare il pistolero che cercava. Gli mette una barba finta, poi gliela toglie. Non funziona. Gli mette un poncho con una greca alla peplum, piccolo memoriale forse di quel Colosso di Rodi di qualche anno prima. Poi un cappellaccio. Lo guarda, lo gira e lo rigira. Funziona, ma manca ancora qualcosa. Gli ficca in bocca un sigaro.
“Sergio… I don’t smoke…!” replica quell’attonito ragazzotto.
“A’ Clint” risponde Sergio “ma che me voi lascia’ a casa er protagonista?”
Ecco come un film, Per un pugno di dollari, “fa” Clint Eastwood. Ma può, viceversa, Clint Eastwood “fare” un film? Non nel senso di girarlo, quello lo abbiamo visto in più occasioni. La domanda è un’altra: è sufficiente un’icona storica cinematografica di questa portata per mandare avanti un intero film dove, per quanto riguarda il resto, c’è ben poco?
Cry Macho – Ritorno a casa racconta la storia di Mike Milo (Eastwood), vecchia gloria del rodeo ormai invecchiata. Al protagonista viene imposta la missione di recuperare Rafo (Eduardo Minett), il figlio “mezzo gringo mezzo messicano” di un suo “amico”. Metto le virgolette alla parola amico perché il personaggio ci viene presentato in maniera contraddittoria: nella prima scena lo vediamo che licenzia Mike dopo anni di onorata carriera e, nella scena successiva, dopo che è passato un anno, gli chiede questo enorme favore.
Perché scegliere un vecchio rigido cowboy per attraversare la frontiera messicana e recuperare un ragazzino in un viaggio che si presenta già pericoloso e pieno di insidie? Non ci è dato saperlo. La giustificazione al primo evento dinamico che mette in moto la storia è abbastanza raffazzonata. Mike parte per completare la missione e quindi incontra Rafo, ma soprattutto Macho, un gallo rosso che il controverso e scapestrato ragazzino utilizza nei combattimenti tra galli. Dico “soprattutto” perché Macho diventa, non so quanto volutamente, il punto focale dell’attenzione del pubblico, in tutta l’irrealtà del quadro dipinto: immaginate Clint Eastwood novantenne che guida il suo veicolo e, sul sedile del passeggero, ha un enorme gallo starnazzante.
A livello di struttura, di caratterizzazione dei personaggi e di “fatti”, il film è a dir poco lacunoso, debole, rabberciato. I personaggi cambiano idea spesso, tutto è il contrario di tutto secondo la necessità narrativa e il vecchio Clint rimorchia come un adolescente nonostante la veneranda età. La storia non sorprende o, se lo fa, è per incoerenza. La cosa che sciocca di più è vedere che Clint, nonostante l’età, riesce a schiacciare pisolini in praticamente qualsiasi posizione.
Il film guadagna un’altra dimensione se lo inquadriamo nell’Universo Eastwood, estraendone una riflessione che riguarda le tematiche classiche dell’attore e regista. Dopo i tanti “duri”, i rissaioli e i pistoleri glaciali, qui si tirano un po’ le somme, l’icona si destruttura ancora di più. Si porta a compimento quel processo iniziato con Gran Torino e portato avanti da The Mule, raccontando una fragilità che i personaggi di Eastwood non hanno mai avuto. La cornice comica, surreale, di cui Macho è il meccanismo principale, sembra quasi dialogare e prendere in giro i vecchi panni che tante volte Clint ha indossato, da Dirty Harry al pistolero de Gli Spietati.
Di fatto, Cry Macho si regge interamente sulla figura di Eastwood, su quello che è stato. Non mancano i riferimenti a un suo possibile commiato, come quando uno dei personaggi principali della storia gli chiede se avesse “intenzione di andarsene senza salutare”. In quel momento Mike/Eastwood si blocca, in un piccolo momento di verità, scevro dal racconto gigionesco portato avanti fino a quel momento. Ma questo è sufficiente? Appena.
Purtroppo la sfilacciatura si avverte, e quello che disturba di più, paradossalmente, è che il film in alcuni momenti riesce a essere elegante, dolce e sensibile. Quindi, da qualche parte, gli strumenti per creare un racconto migliore c’erano e potevano essere utilizzati. La parte più apprezzabile rimane la regia, con i classici momenti di ampio respiro, stavolta anche un poco crepuscolari e oscuri.
Il film rimane comunque da vedere proprio nell’ottica della scomposizione della figura del “macho”, in questa nuova corrente poetica dell’ultimo pistolero del mondo.
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