Non è sempre facile mantenere alto il livello di una saga cinematografica, breve o longeva che sia, soprattutto se i primi due capitoli – Secret Service e Il cerchio d’oro – hanno settato degli standard qualitativi niente male. Si può dire che la saga di Kingsman, insieme alla controparte fumettistica, rappresenti un buon prodotto che fonde egregiamente azione e spionaggio. Cosa fare, quindi, per imbastire un terzo film che non risulti fiacco o ripetitivo? Semplice: basta creare un prequel, ed è proprio quello che ha fatto Matthew Vaughn.
Ambientato in piena Prima Guerra Mondiale, The King’s Man – Le Origini si pone l’obiettivo (come da titolo) di narrare la genesi della famosa agenzia, mettendo in scena personaggi inediti, invischiati in un teatro bellico più complesso di quanto possa sembrare. Le premesse per un gran lavoro ci sono tutte, scopriamolo dunque insieme.
Il duca Orlando Oxford (Ralph Fiennes) perde la moglie Emily (Alexandra Maria Lara) in un conflitto a fuoco durante le guerre boere e, nonostante lui sia un ex-ufficiale dell’esercito insignito della Victory Cross, in nome del suo pacifismo decide di dar vita ad una rete di spie atta a impedire il verificarsi di nuove guerre, così da salvaguardare il Regno Unito e l’Impero britannico. Orlando, inoltre, ha un figlio di nome Conrad (Harris Dickinson), che ha giurato di proteggere ad ogni costo; lo affida così alle cure della balia Polly (una bellissima Gemma Arterton) e del maggiordomo Shola (Djimon Hounsou). Questi ultimi fanno segretamente parte dell’organizzazione capeggiata dal duca.
Dodici anni dopo la morte di Emily Oxford, il mondo è nuovamente in pericolo: in una remota zona montana della Scozia, un folle sconosciuto che si fa chiamare “Il Pastore” (Matthew Goode) ha messo su, a sua volta, un manipolo di sgherri e informatori (una sorta di Nuovo ordine mondiale). Il suo obiettivo è sconvolgere gli equilibri sociopolitici del globo, scatenando proprio sopramenzionata la Grande Guerra, in nome del suo odio viscerale per la nobiltà e l’aristocrazia, rappresentate – secondo la sua visione distorta – dal re della Gran Bretagna Giorgio V (Tom Hollander). Questa sfaccettatura caratteriale dell’antagonista potrebbe celare, per chi conosce la vita del regista, una brillante trovata autobiografica.
Per attuare i suoi nefandi piani sparge per tutta Europa i suoi “tentacoli”, rappresentati da collaboratori di un certo peso: tra loro ci sono Gavrilo Princip (Joel Basman) – assassino dell’Arciduca Francesco Ferdinando (Ron Cook) e della moglie Sofia – Rasputin (un impressionante Rhys Ifans), Erik Jan Hanussen (Daniel Brühl), Mata Hari (Valerie Pachner) e persino Lenin (August Diehl). Insomma, un villain capace di muovere le pedine della storia a suo piacimento; l’unica pecca sta nella sua caratterizzazione, meno ispirata rispetto ai predecessori e forse leggermente macchiettistica. Interessante, tuttavia, come la sua identità non venga mai svelata se non nelle fasi finali.
Se già la trama del film riesce a stuzzicare chi come me adora le rivisitazioni storiche e le battaglie a colpi di spionaggio, il modo in cui viene portata avanti è ciò che tiene lo spettatore incollato alla sedia. La narrazione ha un ritmo incalzante e bilancia bene momenti adrenalinici e frangenti più distesi. Il vero fiore all’occhiello di The King’s Man, tuttavia, sono le immancabili sequenze action, siano esse combattimenti all’arma bianca o frenetiche sparatorie. Matthew Vaughn dimostra ancora una volta di saperci fare molto bene con il cinema d’azione: la sua regia sapiente e un montaggio ottimo firmato da Jason Ballantine (IT: Capitolo 2) e Robert Hall rendono le suddette sequenze chiare ed elettrizzanti. Ogni colpo dato e ricevuto ha il suo peso.
Parlando proprio di movimenti di macchina, il regista fonde fantastiche inquadrature fisse, in soggettiva e in movimento; osa inoltre posizionando la camera in punti particolari durante certi combattimenti, senza dimenticare una slow motion ben dosata, lunghe carrellate e primissimi piani o dettagli, suo marchio di fabbrica. Tutti questi elementi sottolineano come Vaughn non abbia dimenticato l’eredità fumettistica da cui è partito per realizzare la saga: la pellicola, grazie alla sua messa in scena a volte fantasiosa, dona molti momenti memorabili.
Tra questi è impossibile non citare la tesissima quanto divertente (e storicamente accurata) schermaglia tra Oxford e Rasputin – coreografata davvero molto bene – insieme ad uno splendido scontro notturno tra trincee, un misto di accoltellamenti, spari e bengala. Le inquadrature immediatamente successive, colorate dalla fotografia ad hoc di Ben Davis (Cry Macho, Eternals) che ricorda 1917, possono tranquillamente tenere testa al lungometraggio di Sam Mendes.
Se al comparto tecnico aggiungiamo una ricostruzione impeccabile dei costumi e delle scenografie ad opera, rispettivamente, di Michele Clapton (Game of Thrones) e Darren Gilford (Star Wars VII, Spider-Man: No Way Home), e una ricca colonna sonora da parte di Dominic Lewis e Matthew Margeson (Rocketman), otteniamo un mix davvero solido che sorregge l’impianto narrativo a dovere.
Una nota di merito va anche al tono generale con cui il racconto viene imbastito. Quest’ultimo risulta più serioso e drammatico rispetto ai capitoli precedenti; ci sono certamente momenti in cui si ride, ma il tutto viene stemperato più del solito. Spiccano poi una velata critica antiamericanista dal sapore britannico e una riflessione sociopolitica da non sottovalutare: il lungometraggio non offre una visione poetica o epica del conflitto mondiale, tutt’altro. Ciò ci viene mostrato grazie alla parabola di Conrad Oxford, il figlio di Orlando, che – contravvenendo al volere del padre – insegue il sogno di combattere al fronte come soldato: una “storia nella storia” dal colpo di scena fulminante, orchestrato tramite un furbo montaggio alternato.
La guerra, in sostanza, è qualcosa di tremendo e sciocco, come sciocchi sono i politici che la dirigono: per essere un vero eroe, non serve dello stupido orgoglio. Ho molto apprezzato come la sceneggiatura di Karl Gajdusek (Stranger Things) e Vaughn stesso ripudi l’infelice locuzione latina oraziana “Dulce et decorum pro patria mori“, ovvero “È dolce e dignitoso morire per la patria“.
Tirando le somme di The King’s Man – Le Origini, posso affermare che ci troviamo davanti a un film d’intrattenimento molto ben realizzato che soddisfa le aspettative e dona alla saga un episodio perfetto da cui partire per la realizzazione di altre pellicole collaterali (già confermate da tempo). A questo proposito, la nascita degli ormai celebri Kingsman – secondo The Hollywood Reporter che ha riportato una dichiarazione del regista stesso – apre sicuramente ad un sequel, confermato da una scena post-credits in cui sono presenti Lenin, Hanussen e… un’altra fondamentale figura storica.
Non si sa cosa ci riserverà il futuro della saga. Certo è che The King’s Man si presenta come uno spy movie frenetico e curato – soprattutto storicamente parlando – che saprà donare agli amanti del genere momenti di svago e riflessione, cosa sempre più rara nel cinema d’azione odierno, votato esclusivamente alla spettacolarizzazione della violenza.
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