Guillermo del Toro è sicuramente uno dei registi più interessanti degli ultimi 30 anni. Nato inizialmente come cineasta indipendente nel Messico degli anni ’90, grazie ai suoi primi film Cronos e Mimic viene notato da Almodovar che gli produce La spina del diavolo, il film che poi lo lancerà verso pubblico e produzioni internazionali. Il suo immaginario è sempre stato caratterizzato da una commistione tra fiabesco e orrorifico, riuscendo ad analizzare la figura del “mostro” sempre da un punto di vista interessante, e concedendo sempre grande dignità ai suoi personaggi e alle sue storie, sia dal punto di vista narrativo che da quello estetico.
Dopo la vittoria agli Oscar 2018 per il miglior film e la miglior regia con La forma dell’acqua, il regista messicano è finalmente tornato al cinema con La Fiera delle Illusioni – Nightmare Alley, tratto dall’omonimo romanzo di William Lindsay Gresham, il cui precedente adattamento cinematografico risale al 1947.
Il film inizia con Stan Carlisle (Bradley Cooper) intento a bruciare la sua casa di campagna ormai in rovina, facendoci intuire come il personaggio sia pronto ad intraprendere una nuova vita liberandosi del suo passato tormentato. L’uomo si imbatterà presto in un circo itinerante gestito da Clem Hoately (Willem Dafoe), a cui chiederà un lavoro, iniziando così come manovale. Facendo la conoscenza di tutte le svariate figure circensi, Stan inizierà ad interessarsi sempre di più ai trucchi di mentalismo, scoprendo una dote innata nella manipolazione delle persone. Questo lo porterà ad allontanarsi da quell’ambiente per mettersi in proprio insieme a Molly (Rooney Mara), una giovane ragazza di cui si è innamorato durante la sua permanenza al circo.
Nightmare Alley è visivamente splendido, i toni sono sempre cupi e l’atmosfera generale dell’immagine, grazie anche alle onnipresenti luci al neon, è completamente immersa in quella dei noir anni ’40 (pur essendo a colori), che per l’appunto sono gli anni in cui è ambientata la vicenda. Le musiche di Nathan Johnston conferiscono ulteriore carica “estetica” all’immagine, facendoci praticamente scordare di star vedendo un film del 2021. Tutta questa grande cura per i dettagli e per la messa in scena però non viene ben bilanciata dalla narrazione, che pur prendendosi i suoi lunghi tempi – il film dura 2 ore e mezza precise – sembra riuscire solo a scalfire la superficie di quello che vorrebbe raccontare, allineandosi a quello che, secondo me, è il trend degli ultimi lavori di Guillermo del Toro, a partire da Crimson Peak.
In Nightmare Alley purtroppo manca prima di tutto la suspense, cosa non di poco conto in quello che vorrebbe essere un noir. Tutta la prima ora del film è interessante per quanto riguarda la rappresentazione circense dell’epoca e di tutti i trucchi di magia, e ha nei dialoghi con il gestore Willem Dafoe – come al solito bravissimo – le sue parti più interessanti, ma rimane un girare a vuoto fine a sé stesso. Il protagonista troverà la sua crescita in modo repentino e poi si passerà a un salto temporale che farà sembrare solo un prologo quella che è, a tutti gli effetti, quasi metà del film. Una metà in cui non si riesce a trasmettere neanche l’emozione di questo “girare a vuoto”, magari creando della suspense anche proprio per questa discesa in un mondo strano e folle – alla Velluto Blu diciamo – finendo così per risultare priva di mordente.
Nella seconda parte il tutto si fa ancora più “protagonista-centrico”, avendo di fatto solo il suo sviluppo insieme a Molly e la psichiatra Lilith Ritter (Cate Blanchett), e giocando molto sull’ambiguità dei rapporti di questo triangolo. La psichiatra avrà un ruolo fondamentale in quanto anche lei, come Stan, riesce a manipolare le persone grazie alla sua scienza, portando di fatto il protagonista a seguire più il denaro che la morale. Tutto il discorso sull’etica e sul passato poteva essere anche molto interessante, peccato che non si sia scandagliato di più il rapporto del protagonista con il padre e il background dei personaggi secondari. Tutti infatti soffrono di un appiattimento totale, sono solo maschere preconfezionate inserite in una storia che sa dove vuole andare, ma non lo comunica come si deve allo spettatore, e non in maniera intenzionale. Oltretutto questa mancanza di forza nei personaggi rende visibilissimi gli attori che li interpretano, non riuscendo mai a far immedesimare lo spettatore nella vicenda.
È un peccato parlare così di un film dello stesso regista che è riuscito a dare dignità e forza ad una storia di robottoni che combattono i kaiju, con personaggi paradossalmente molto più approfonditi e sfaccettati rispetto a quelli che si vedono qui, dove invece richiedevano una maggior cura. Inoltre, pur continuando la sua poetica dell’uomo-mostro, il regista non riesce a creare nessun momento topico che porti davvero avanti la sua discussione, iniziata dal suo primo film. In Nightmare Alley la figura dell’uomo bestia, cruciale anche per il finale, avrebbe potuto avere una valenza incredibile per il cinema di del Toro, essendo a conti fatti un’ibridazione realistica creata solamente dalla malvagità delle persone, ma tutto questo, ancora, rimane solo in superficie.
Sono tanti infatti gli spunti che avrebbero potuto creare una narrazione originale e “pregna”, a partire dalla differenza tra il mentalismo come trucco di magia e la psicanalisi come scienza, usati entrambi per manipolare le persone, oppure lo sviluppo di una coscienza morale (super-io) senza dover per forza far affidamento alle figure genitoriali. Quanto è alto il rischio che una persona tormentata e pericolosa voglia far del male agli altri solo perché ha subito lo stesso in passato? È giusto calpestare la morale solo per profitto? O ci sono sotterfugi accettabili che non nuocciono a nessuno? Tristemente, nessuna di queste belle tematiche verrà mai sviluppata appieno, lasciando un grande senso di incompletezza.
La Fiera delle Illusioni – Nightmare Alley purtroppo è un film molto stanco, che si trascina per la sua esorbitante durata senza giustificarla in alcun modo, sia perché al film sarebbe servito molto più approfondimento, sia perché risulta incredibilmente noioso, non riuscendo a dare una direzione precisa alla narrazione. Sembra quasi che Guillermo del Toro, grande fan del libro e del film del ’47, abbia voluto mettere dentro al suo adattamento quante più cose possibili, dimenticandosi però di mescolarle insieme sapientemente.
Sono lontani quindi i fasti de Il labirinto del fauno, nel quale anche una favola riusciva a trattare temi importanti con molta dignità e originalità. Questa volta il film è molto serio e cupo, ma purtroppo le tematiche risultano trattate come nel peggiore dei racconti per bambini. Sperando in una ripresa per i prossimi film del regista messicano, vi invito comunque ad andare a vedere al cinema questo suo lavoro, perché potrà sicuramente darvi spunti interessanti e immagini splendide, lasciando però a voi il compito di immaginare il resto.
Un ringraziamento speciale a The Walt Disney Company
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