Kenneth Branagh è sempre stato un bravo attore, ma allo stesso tempo un regista altalenante. Nel suo esordio del 1989, Enrico V, nel recente Belfast e persino in Assassinio sull’Orient Express – suo primo approccio al detective Hercule Poirot – mostra i muscoli, mentre in Artemis Fowl, Thor e altre opere inciampa rovinosamente in sviste grossolane. Assassinio sul Nilo, se avete sbirciato il voto finale, purtroppo è un nuovo buco nell’acqua per la sua carriera e non può che dispiacere. Procediamo quindi con la sua analisi.
Iniziamo subito col fugare il dubbio più importante: la sceneggiatura di Michael Green (Logan, Blade Runner 2049) riesce a difendersi bene, d’altronde è difficile sbagliare maneggiando un capolavoro della letteratura come Poirot sul Nilo. Gli appassionati di gialli possono dunque rinfoderare i coltelli: l’eredità della prolifica Agatha Christie è salva (circa).
Per chi non conoscesse la trama, è semplice quanto efficace: Hercule Poirot (Kenneth Branagh) si imbarca sul lussuoso battello Karnak per una crociera sul Nilo. Durante il viaggio fa la conoscenza della giovane ereditiera Linnet Ridgeway (Gal Gadot) – in viaggio di nozze con il marito Simon Doyle (Armie Hammer) – e di Jacqueline de Bellefort (Emma Mackey). Quest’ultima è l’ex migliore amica di Linnet ma soprattutto l’ex fidanzata di Simon, del quale è ancora innamoratissima, e ha tutta l’intenzione di ossessionare gli sposi con la sua presenza. In questo tesissimo triangolo amoroso qualcuno viene ucciso ed è compito dell’investigatore belga trovare l’assassino.
I problemi gravi del lungometraggio tuttavia non tardano ad arrivare, e risiedono principalmente nella fotografia imbarazzante a cura di Haris Zambarloukos (fido collaboratore di Branagh nelle pellicole citate in apertura). Inizialmente, Assassinio sul Nilo ci illude presentandosi con delle scene di guerra in bianco e nero: è il 1914, ci troviamo in Belgio per esplorare il passato di Poirot, trascorso come soldato al fronte. Questi frangenti sono davvero ben girati e costruiti in maniera interessante, complici dei posizionamenti particolari della macchina da presa che immergono a dovere nell’atmosfera bellica.
I minuti iniziali lasciano poi spazio alla Londra nel 1937 dove – tramite delle scene scandite dalle vibranti canzoni di Salome Otterbourne (Sophie Okonedo) – facciamo la conoscenza dei tre protagonisti coinvolti nel sopracitato triangolo amoroso. Fin qui le scene sono formalmente corrette: spicca una fotografia molto contrastata, soprattutto sui primi piani per far risaltare i volti degli attori; peccato per un fastidioso uso del focus in/focus out e per occasionali scavalcamenti di campo.
Dov’è allora che il film crolla? Semplice: durante tutto il resto del racconto, ambientato in Egitto sei settimane dopo. Qui il comparto fotografico cambia totalmente faccia; sul set le consultazioni tra Zambarloukos e il regista devono essere andate più o meno così:
“Aprire tutto” si sostanzia, per prima cosa, in un’esposizione molto alta e in colori saturi che donano alle scene una finitura quasi lucida e, nei momenti peggiori, forse accecante. Capisco che, per forza di cose, l’utilizzo di un alto contrasto richieda il bisogno di aumentare la luminosità generale per evitare di ottenere immagini troppo scure, ma qui si esagera. Alcune riprese in Egitto, soprattutto gli esterni, sono palesemente girate in studio – più precisamente i Longcross Studios in Inghilterra – ed è possibile accorgersene a causa dell’illuminazione artificiale che, spesso e volentieri, è completamente sbagliata. Ah già: il fiume Nilo è finto, un plauso sardonico va quindi al reparto degli effetti visivi per aver distrutto la possibilità di immergersi a dovere nell’affascinante ambientazione desertica; sfortunatamente la ricostruzione del tempio di Abu Simbel non riesce a giovare abbastanza alla resa scenografica complessiva.
Proseguendo l’esame del lato tecnico, può capitare che i visi degli interpreti risultino privi di ombreggiature negli attimi più “soleggiati”, un effetto che si ottiene direzionando frontalmente la luce dei riflettori; per usare dei termini tecnici si parla di “luce in asse” e il lungometraggio ne fa largo uso. I controluce vengono poi particolarmente caricati per far risaltare gli attori rispetto allo sfondo, rendendo ancora più ovvia l’artificiosità della messa in scena: la mancanza di luce naturale si fa sentire. Il risultato finale è davvero deludente e avvicina certe sequenze a una puntata di Pomeriggio Cinque con Barbara d’Urso.
Non è tutto: ciò che porta seriamente a mettersi le mani tra i capelli è il posizionamento delle suddette, dannate luci. Di frequente, queste sono dure e cambiano direzione magicamente di frame in frame, dimostrando che molte sequenze non sono altro che un montaggio schizofrenico di campi e controcampi ripresi in luoghi e momenti diversi (questo grosso difetto, non a caso, colpisce maggiormente i dialoghi). In altre parole, la resa luministica si modifica in funzione delle inquadrature. Ciò significa che ogni shot ha la sua illuminazione, in conflitto con le precedenti; un vero e proprio pasticcio.
Un esempio? Negli esterni può capitare che la luce arrivi da sopra e colpisca le teste di chi è in scena, nonostante il sole provenga dalla parte diametralmente opposta. Scherzando viene da chiedersi: Poirot e i suoi comprimari si trovano forse in un Egitto parallelo dove sorgono e tramontano più di due soli? In sostanza, gli orrori dal lato fotografico sono talmente plateali da sembrare intenzionali. Non si capisce se l’artificiosità invadente della pellicola sia un effetto voluto per dare al tutto un tono d’epoca – decisamente cannato da questo punto di vista – o se la colpa di questi strafalcioni sia da attribuire a eventuali ostacoli in fase di produzione – dovuti probabilmente alla pandemia di COVID-19 – che hanno impedito alla troupe di girare sulle vere sponde del Nilo.
Desidero togliermi un ultimo sassolino dalla scarpa: Gal Gadot (Wonder Woman 1984). Se avete letto la mia recensione di Red Notice, saprete che la mal sopporto profondamente. In Assassinio sul Nilo non si smentisce e sfodera tutte le sue incapacità attoriali, alternando le sue solite due espressioni: sorridente o triste. Qualcuno in sala l’ha paragonata ad Anna Tatangelo, una battuta più che azzeccata. Armie Hammer (Chiamami col tuo nome) non fa molta differenza e porta in scena una performance dimenticabile.
Venendo ai pregi – che purtroppo non bastano a salvare l’ultima fatica di Kenneth Branagh – la già citata Emma Mackey (Sex Education) fa un buon lavoro così come lo stesso Branagh e l’ammaliante Sophie Okonedo (Hellboy). La colonna sonora firmata dal compositore Patrick Doyle (Carlito’s Way, L’alba del pianeta delle scimmie), in ultimo, supporta a dovere gli avvenimenti con brani opportunamente angosciosi.
Il nostro regista nordirlandese è certamente un cineasta che sa dar vita a quadri corali notevoli e che sa muovere la macchina da presa con il giusto mestiere (i suoi travelling sono difatti tra i pochi elementi veramente meritevoli). Questa sua versione di Assassinio sul Nilo è, in definitiva, un giallo che riesce a intrattenere senza annoiare, complici le appariscenti elucubrazioni di Poirot orchestrate dal montaggio convincente di Úna Ní Dhonghaíle. Eppure il comparto tecnico sgretola e rovina ciò che la pellicola ha di buono, rendendola sgradevole e a tratti inguardabile.
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