Iniziamo col fugare ogni dubbio: Licorice Pizza non è una bizzarra “pizza di liquirizia”, bensì il nome di una famosa catena di negozi di dischi di Los Angeles. Il termine, inoltre, è un modo colloquiale che indica i 33 giri in vinile. Insomma, un nomen omen che dichiara espressamente il tono e le atmosfere del nono lungometraggio del talentuosissimo e pluripremiato regista Paul Thomas Anderson. Parlando di riconoscimenti, questo film non fa eccezione, essendo stato candidato per tre Oscar e quattro Golden Globe e avendo intascato un BAFTA per la miglior sceneggiatura originale (firmata da Anderson stesso).
La straordinaria e oltremodo calorosa accoglienza della critica – ai premi sopracitati si affiancano numerose altre candidature e recensioni entusiastiche – non ha fatto altro che spingermi in sala alla prima occasione possibile, e oggi sono qui a dare il mio immancabile contributo.
La storia alla base della pellicola è un patchwork di idee: nel 2001 il regista visita una scuola media e osserva i comportamenti degli studenti nei confronti di una ragazza, molto più grande di loro, al lavoro come fotografa per l’annuario. Da qui l’ispirazione per l’high concept, poi sommata a ulteriori spunti narrativi forniti dall’amico – produttore e attore – Gary Goetzman: uno dei protagonisti del film, Gary Valentine, non è altro che un calco nato dalle disavventure giovanili del cineasta. In ultimo, Paul Thomas Anderson ha indicato American Graffiti di George Lucas come modello fondamentale nella stesura della sceneggiatura.
Quindi? Qual è la trama? Nulla di più semplice: il sopracitato Gary Valentine (Cooper Hoffman) è un esuberante quindicenne perennemente indaffarato in lavoretti di varia natura e progetti lungimiranti; a scuola conosce Alana Kane (Alana Haim), una schiva venticinquenne, assistente del fotografo ingaggiato per il nuovo annuario scolastico. Il pensiero del ragazzo è uno solo, ovvero “ho incontrato la donna che sposerò“; questo colpo di fulmine lo porta a imbastire numerose trovate per impressionare Alana e avvicinarla a sé. I mondi dei due protagonisti, apparentemente inconciliabili a causa dei dieci anni di età che li separano, si intrecciano così sempre di più: lei è spesso repulsiva, lui tenta di mostrarsi più adulto di quello che è.
Introduco la mia analisi sviscerando l’aspetto forse più “scontato” del film: il suo lato tecnico che, visto il regista, risulta prevedibilmente ineccepibile. Licorice Pizza è ambientato nel 1973 e ciò che si respira durante i suoi 133 minuti è pura febbre da anni settanta. Per questo ammirevole risultato finale bisogna rivolgere dei dovuti ringraziamenti a diverse maestranze. In primis, alla scenografa Florencia Martin (Her, Locke & Key) che ha ricostruito al millimetro tutto ciò che si vede a schermo. Il suo lavoro è stato coadiuvato dal costumista Mark Bridges (Il petroliere, Joker) – fedelissimo collaboratore di Anderson – che, forte dei due Academy Award per The Artist e Il filo nascosto, mette nuovamente in mostra le sue grandi capacità. L’ultimo applauso va a Paul Thomas Anderson stesso che, affiancando l’amico e collega di lunga data Michael Bauman (The Master, Vizio di forma), firma la splendida direzione della fotografia e decide di girare con lenti d’epoca e su pellicola da 35 mm: i veri tocchi da maestro che donano al lungometraggio la “texture” adeguata.
A questo proposito, la mano del maestro di sente tutta: piani sequenza sinuosi e carrellate delicate si fondono a sporadiche e frenetiche riprese con macchina a mano, senza dimenticare eloquenti primi e primissimi piani. L’autore losangelino è, a tutti gli effetti, un artista completo. Con questa sua ultima, fiabesca fatica dona alla storia del cinema il suo personalissimo tributo ad un periodo storico a lui caro, sulla falsariga del C’era una volta a… Hollywood di Tarantino.
Venendo alla sostanza vera e propria del film, ciò che viene mostrato è un romanticismo spontaneo, credibile e non esente dalle classiche scappatelle adolescenziali. Si parla di sentimenti autentici, di un amore innocuo ma totalizzante. Ciò che unisce Gary e Alana è un rapporto strano, quasi paradossale; un filo rosso che li riporta sempre insieme, nonostante si allontanino per i motivi più disparati. Quest’ultimo concetto viene sottolineato a dovere da una sequenza nel finale, orchestrata grazie ad un montaggio semplice, ma dal forte impatto emotivo. I due ragazzi sono coinvolti in una “corsa forsennata e animalesca che insegue la vacuità dei sogni”, per citare la videorecensione del regista e sceneggiatore Roberto Leoni.
Opere come Il petroliere, The Master e – in questo caso specifico – Ubriaco d’amore mostrano come uno degli elementi ricorrenti nella cinematografia di Anderson consista nel mettere in scena personaggi frustrati, imperfetti e insicuri; qui il discorso non cambia: il tutto è riportato, ovviamente, ad una scala più giovanile.
Non è un caso, dunque, se la San Fernando Valley rappresentata in Licorice Pizza sia un setting schizofrenico: magico e al contempo minato da cicatrici incancrenite che lo trascinano sull’orlo del baratro. Certo, i 70s sono gli anni dei Doors e di David Bowie, ma anche della decadenza morale, politica, economica e sociale degli Stati Uniti. Immancabile quindi il classico rovescio della medaglia, che sbatte in faccia agli spettatori tutto ciò che c’è di più riprovevole nell’industria teatrale e cinematografica, senza dimenticare quella fatidica legge del contrappasso che aleggia su Hollywood e su chi vuole raggiungere la fama nei suoi territori.
La relazione tra Gary e Alana è un pretesto per raccontare molto di più: l’intreccio narrativo, sin dai primi minuti, vola dritto al punto per poi svoltare improvvisamente verso tematiche serie e stratificate. La strana coppia è dotata di personalità stuzzicanti e particolari: lui è un ragazzino che vive da quarantenne, mosso da un incrollabile arrivismo; lei un’adulta che si comporta da teenager infantile. Il primo desidera amare una ragazza troppo grande per lui, spinto da un’ambizione incontrollabile (e l’eccessiva ambizione, nel mondo moderno, sappiamo dove porta); la seconda si rifiuta di crescere, irrimediabilmente attratta dall’innocenza della sua controparte. Entrambi dovrebbero scontrarsi con la realtà e nel corso della narrazione lo faranno a più riprese, ma allo stesso tempo cercano di evitarla, preferendo la fuga (in senso letterale e figurato).
Il battesimo del fuoco di Alana Haim e Cooper Hoffman è un successo, un debutto sorprendente. A dirla tutta, ogni membro del cast restituisce prove attoriali ottime. Impossibile non citare l’esilarante e tesissimo cameo di Bradley Cooper (A Star is Born, Nightmare Alley) nei panni del folle produttore Jon Pagano Peters, come anche le performance di Sean Penn e Tom Waits: i due interpretano rispettivamente Jack Holden e Rex Blau, un attore e un regista che parodiano William Holden e Mark Robson (artisti realmente esistiti).
In poche parole, la tanto blasonata sceneggiatura è effettivamente brillante e sapientemente tagliente quando serve. In sintesi, quella che viene raccontata è una doppia crisi adolescenziale che va a coincidere con la storica crisi petrolifera tra il 1973 e il 1974, a cui segue la famigerata austerity nel bel mezzo del governo Nixon. “Out of gas, rent a bike” è la frase più simbolica del film: la lungimiranza di Paul Thomas Anderson, in questa occasione, è spaventosa. Mentre scrivo, è in corso una nuova, grave crisi energetica, e un film che parla del mondo di cinquant’anni fa è più attuale che mai. È solo fortuna o il nostro regista è la reincarnazione di Nostradamus? Come si suol dire, la storia è sempre destinata a ripetersi.
È difficile definire con parole semplici gli Stati Uniti del 1973, sono proprio una buffa e agrodolce “pizza di liquirizia”. In questo paese dilaniato trovano spazio – guarda caso – il fallimentare sogno americano, così come la poetica del self-made man, in tutto il suo maschilismo condito con del razzismo e una spolverata di omofobia e misoginia. Quanto a quest’ultima sfaccettatura, è possibile riscontrare molteplici punti di contatto con ciò che viene raccontato da Edgar Wright in Last Night In Soho. Persino lo stereotipo dei celebri – forse per le ragioni sbagliate – materassi ad acqua ha una sua discreta importanza nella narrazione.
Si potrebbe dire che in Licorice Pizza l’America sia un immenso circo. Non è semplicemente una ricca fonte di risate, complici le spassose gag disseminate qui e là, bensì un’intelligente allegoria ispirata dalla canzone Life On Mars? del già citato David Bowie (utilizzata sia nel trailer, che in una scena della pellicola). Secondo le dichiarazioni del cantautore, il brano racconta di come “la facile allegria di un clown venga soggiogata dall’improvvisa scoperta dell’amore“. I nostri clown non sono altro che i due protagonisti: per inseguire i loro sogni, cambiano sempre abito e versione di loro stessi, in un tendone a stelle e strisce. In particolare, i versi del cantante parlano di una ragazzina votata all’escapismo, alla ricerca di una via di uscita dalla sua grigia esistenza. Bowie sottolinea: “penso che si senta tradita, che sia delusa dalla realtà. Penso che, pur vivendo una realtà deprimente, sia convinta che in un luogo imprecisato c’è una vita che vale la pena di vivere e che sia amaramente insoddisfatta per il fatto di non avervi accesso“. Chi vedrà il film si renderà conto di quanto queste ultime frasi si adattino a pennello alla figura di Alana Kane.
Per chiudere il discorso sul comparto sonoro, è d’obbligo menzionare il decisivo apporto di Jonny Greenwood (Spencer, Il potere del cane), polistrumentista per i Radiohead e compositore che non ha bisogno di presentazioni. Inutile evidenziare come il suo operato sia solo valore aggiunto ad un’opera incantevole già di suo.
Concludendo, credo che questa pizza di Paul Thomas Anderson sia molto gustosa, al netto di un ritmo non sempre convincente che, sporadicamente, indugia un po’ troppo su certe situazioni. Secondo alcuni, come ho letto su Letterboxd, anche il finale potrebbe essere considerato una bella sbavatura. “Esageratamente rose e fiori“, scrivono. Io vado controcorrente e dico che si tratta di una scelta autoriale interessante: è una conclusione “ingenua” – come ingenuo è l’amore tra Alana e Gary – in netto contrasto con la situazione avvilente che fa da sfondo. Si tratta forse di un invito a lasciarsi andare all’edonismo? Alla fuga? Una soluzione temporanea per non badare al disastro in atto? Molto probabilmente sì.
In questo senso, gli stessi materassi ad acqua citati in precedenza potrebbero essere una folle metafora della volontà di abbandonarsi alle onde di quell’oceano torbido che è l’oziosa America degli anni settanta. Un epilogo che cela una condanna allo status quo, portata avanti da una filosofia escapista. Un’interpretazione troppo audace? Chissà.
Elucubrazioni a parte, invito voi lettori a godere di questo film in sala e a viverlo, magari, con la vostra dolce metà. Scoprirete una commedia romantica di spessore che rilancia un genere molto bistrattato – a volte per i motivi giusti – ma che, nelle mani giuste, può esprimere il suo potenziale portando con sé parecchi spunti di riflessione.
Commenta per primo
Questo sito è protetto da reCAPTCHA e si applicano le Norme sulla Privacy e i Termini di Servizio di Google.