Essendo passati ormai 8 anni dalla sua ultima fatica cinematografica, nessuno si sarebbe mai aspettato un ritorno al cinema così esplosivo per un maestro come David Cronenberg. Maps to the Stars, nel 2014, chiudeva perfettamente il cerchio del suo cinema post-2000, dove le ossessioni body horror e fantascientifiche avevano lasciato spazio ai turbamenti dell’animo, alla psicanalisi e alla critica sociale.
Crimes of the Future arriva come un fulmine a ciel sereno al 75° Festival del Cinema di Cannes, riportando il regista dritto dentro quel suo immaginario che non toccava più da eXistenZ del 1999, riuscendo in modo incredibile a mescolarlo con tutte quelle tematiche esistenziali dell’ultimo periodo. Il risultato è un film che probabilmente rappresenta la summa di tutto il suo cinema.
Crimes of the Future racconta di un mondo nel quale l’avanzamento tecnologico e genetico ha permesso all’umanità di liberarsi dal dolore fisico e dalle infezioni, rendendo inutili la medicina e la chirurgia, ora utilizzate come arte performativa. Pur trattandosi di un mondo avveniristico, nel film viene rappresentato come se fosse finito, con case fatiscenti, tecnologia riconvertita a nuovi utilizzi e una costante atmosfera di morte che aleggia in ogni inquadratura. Si potrebbe quasi dire che quella avvenuta sia una “apocalisse morale”, che ha reso gli umani completamente distaccati e noncuranti in quanto privi di qualsiasi sofferenza (e quindi di conseguenze).
Saul Tenser (Viggo Mortensen) e la sua partner Caprice (Léa Seydoux) sono “performance artists” che basano i loro spettacoli sull’espiantazione dei “nuovi organi” che crescono rapidamente nel corpo di lui a causa della Sindrome da Evoluzione Accelerata di cui soffre. Caprice, tramite l’utilizzo di un modulo SARK per le autopsie appositamente modificato, controlla la crescita di questi tumori nel corpo di Saul, li tatua e poi li estrae davanti al pubblico in visibilio. La loro prospettiva sul nuovo percorso evolutivo che l’umanità sta percorrendo inizierà lentamente a cambiare dopo due incontri particolari: quello con Whippet (Don McKellar) e Timlin (Kristen Stewart) dell’appena fondato Registro ufficiale dei nuovi organi, che per l’appunto cercano di ufficializzare e catalogare l’esistenza di tali organi, e quello con Lang Dotrice (Scott Speedman), un uomo misterioso che invece cerca di proporgli il cadavere del figlio come soggetto per i loro spettacoli.
Il film, in 1 ora e 50 minuti scarsi, propone una dissertazione filosofica su tantissimi temi, primo tra tutti l’arte. Partendo dall’assunto che anche questo tipo di performance possa diventare tale solo tramite un processo di significazione, rendendo un “semplice” tumore qualcosa di più, si arriva persino all’utilizzo politico che si può fare di essa. Torna inoltre il concetto della “nuova carne” presente fin dai tempi di Videodrome, che qui viene ripreso e portato oltre in un discorso che comprende l’ambientalismo, l’evoluzione della specie umana e il suo adattamento alla vita sotto il capitalismo.
Il bello di Crimes of the Future è che in questo piccolo lasso di tempo riesce ad essere un film completissimo, che non abbandona mai una narrazione pulita – che a livello di eventi ha un inizio, uno svolgimento e una fine – ma veramente pregna di sottotesti e metafore che, anche solo con una piccola linea di dialogo, riescono a far riflettere e spiegare il mondo che si sta osservando. “L’apocalisse morale” che menzionavo prima non viene mai nominata, ma si comprende da come Cronenberg rappresenta gli ambienti e dal piccolo discorso che fa Whippet al primo incontro con Saul e Caprice, parlando di come nessuno si lavi più le mani perché non ne ha più bisogno.
È impressionante come ogni singola sequenza sia interpretabile a livello sia concreto che allegorico, una dualità che è anche parte del “testo filosofico” che il regista vuole proporre, dove pur parlando e mostrando il corpo umano al livello più basso e viscerale, scatena il pensiero e il ragionamento sui temi più alti e importanti, sancendo la mutualità dello spirito con il corpo.
Quello che Cronenberg ha sempre cercato di fare con il suo cinema è suscitare un’emozione forte, e Crimes of the Future riesce persino a mettere in discussione questo. È come se il regista volesse discutere su quanto, tornando a questo tipo di arte “scandalizzante”, possa davvero mandare un messaggio a tutti: si tratta solo di persone che si tagliano a vicenda o c’è un significato più profondo, come per la “Fontana” di Duchamp? Una ricerca di significato e di visibilità che forse è il fulcro del messaggio della pellicola, che fa della “politica” estrema e radicale del suo autore – nonostante sia prossimo agli 80 anni – la sua forza più grande. Così come Lang Dotrice, il regista è nauseato dall’attuale stato del mondo, che non riesce a prendere una decisione netta sulle tematiche più importanti, ma brancola nell’immobilismo. Se davvero non vogliamo cambiare sistema socio-economico, allora per non autodistruggerci non dovremmo forse evolverci in qualcosa di diverso dall’umano? Se non viviamo più in uno stato “naturale”, che senso ha mantenere la naturalità della condizione umana?
Non so se questo si possa definire il testamento artistico di David Cronenberg, ma gli elementi ci sono davvero tutti, e non solo concettuali. La sua regia è glaciale come non mai, con dei micromovimenti che seguono sempre gli attori in campo cercando di nascondere il più possibile la macchina presa, tranne nei pochi momenti in cui Caprice registra con la telecamera che ha sul suo anello. Quest’ultimo elemento inoltre porta con sé una narrazione metacinematografica sulla potenza del mezzo audiovisivo come potenziale espressivo e comunicativo.
La fotografia del canadese Douglas Koch si muove su luci soffuse e atmosfere crepuscolari per dipingere questo mondo ormai al declino, e la musica del fidato collaboratore Howard Shore si mantiene su suggestioni elettroniche e sintetiche minimal e industrial, con un tema principale che ricorda molto quello di Laura Palmer in Twin Peaks.
Crimes of the Future è un film spiazzante, che sicuramente non vi farà “scappare dalla sala” come fatto intendere da alcuni commenti dalla Croisette – non c’è niente di più, niente di meno di quello che vi aspettereste da un horror di Cronenberg – ma probabilmente vi scatenerà una reazione forte e viscerale. Parlo però di una reazione emotiva che coincide anche con quella intellettuale.
Inutile dilungarsi sulla bravura degli attori – Viggo Mortensen in primis, qui in un one man show – che ormai sono diventati tutti delle istituzioni della recitazione, così come cercare altri motivi per convincervi a guardare l’ultima fatica del regista di Toronto. Solo tramite una reazione forte, uno shock che sia emotivo, visivo o intellettuale, possiamo davvero comprendere qualcosa che prima ci sembrava lontano. Solo così possiamo davvero evolverci ed evitare la stagnazione e l’annichilimento. Gloria e vita alla nuova carne, ora più che mai.
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