Alex Garland è sicuramente uno dei più importanti autori di fantascienza nel cinema contemporaneo. I suoi due film precedenti, Ex Machina e Annientamento – quest’ultimo tratto dal romanzo di VanderMeer – sono prove autoriali di grande valore per un genere che al cinema, tolto Neill Blomkamp, non ha più sfornato nuovi talenti così imperdibili. Giunto al suo terzo lungometraggio ufficiale da regista (in realtà ci sarebbe anche il reboot di Dredd, in cui non è accreditato) Garland si tuffa completamente nel genere horror – nonostante già in Annientamento ci fossero delle suggestioni orrorifiche molto interessanti – con lo stile “psicologico” della A24, che infatti ha prodotto il film.
Abbandonata quindi ogni tipo di fantascienza, Men racconta di Harper (Jessie Buckley), una giovane donna inglese che, dopo la morte del marito (Paapa Essiedu) per la caduta da un palazzo, decide di affittare per un mese un classico cottage di campagna al fine di staccare dalla vita lavorativa e cercare di elaborare da sola il trauma. Al suo arrivo la accoglie il padrone di casa Geoffrey (Rory Kinnear), un uomo molto sopra le righe ma apparentemente amichevole, che le presenta il luogo e poi la lascia al suo soggiorno. Tutto trascorre in modo normale fino all’arrivo di uno sconosciuto, un uomo completamente nudo, che sembra stalkerare la protagonista.
La struttura narrativa di Men è molto strana, in quanto per i primi 40 minuti (su 1 ora e 40) il film sembra quasi una classica commedia inglese che, nonostante il trauma della protagonista, si muove per sketch e battute ad effetto, soprattutto con l’introduzione del personaggio di Geoffrey. Il problema però è che per tutta questa prima parte lo spettatore si aliena sempre di più dal film, che in realtà dovrebbe essere un horror. Non esagero dicendo sia stata la proiezione più strana a cui abbia mai partecipato, con tutto il pubblico a Cannes estremamente confuso, divertito dalla commedia ma allo stesso tempo completamente distaccato dalla narrazione. Quando poi la protagonista inizia ad incontrare altri uomini, tutti con le sembianze di Geoffrey, la direzione che il film vuole intraprendere inizia a farsi più chiara, ma a quel punto è troppo tardi.
Il film di Garland vorrebbe essere un’allegoria su come una mente sofferente, con implicazioni matrimoniali tossiche, potrebbe reagire e vedere il mondo degli uomini intorno a lei, tutti troppo distanti e intercambiabili, che non vogliono ascoltarla ma solo usarla. Il problema di questo messaggio però è che non viene accuratamente approfondito, ma solo lanciato in un film che, nella parte finale, esplode in un tripudio di scene raccapriccianti – anche visivamente ben realizzate – che non sortiscono l’effetto sperato, non avendoci fatto vivere quasi per nulla il dramma della protagonista con una narrazione completa.
Alex Garland sembra essersi concentrato molto di più sull’aspetto concettuale, quasi da videoarte, in cui riferimenti religiosi, celtici e folkloristici si fondono in scene di purtroppo difficile comprensione, inserite più per una voglia “artistica” che per una vera esigenza narrativa. Persino le bellissime musiche dei soliti collaboratori Ben Salisbury e Geoff Barrow (Portishead) a volte sembrano fuori luogo, diventando quasi più esse il focus rispetto alle immagini mostrate.
Anche in questo film il talento di Garland nella messa in scena non viene mai messo in dubbio, e si rivela inoltre un grande direttore d’attori, facendo spiccare, più della sempre brava Jessie Buckley, Rory Kinnear nei suoi molteplici ruoli, sempre diversi eppure credibili. In questo senso ci sono delle scene di grande cinema, come quella nella chiesa in cui la protagonista scoppia a piangere per il suo dolore, dove tutti gli elementi, dai più simbolici ai più terreni, sono bilanciati perfettamente. È un peccato che il regista non abbia continuato in quella direzione, perdendo invece la sua identità in favore di quella più “artistica” che ormai contraddistingue le produzioni A24, e finendo per realizzare qualcosa di troppo scialbo e pretenzioso, che sembra più una brutta copia dei film di Ari Aster.
Men è un horror sicuramente atipico, anche per i nuovi canoni costruiti dalla A24 nel trattare questi argomenti – primo fra tutti Midsommar – ma non riesce ad arrivare così in profondità come vorrebbe nell’elaborazione del lutto e in tutti i suoi temi “profondi”, che sembrano solo sfiorati e inseriti come le figurine mancanti in un album. L’eccessiva staticità della prima parte non viene compensata dalla seconda, che pur essendo visivamente ricca di suggestioni terrificanti, non riesce mai a costruire una metafora realmente accattivante e sviluppata per giustificare tutta la narrativa del film.
Men rimane quindi un’occasione persa per Garland, che forse si è lasciato prendere un po’ troppo la mano da una presunta “autorialità” che, purtroppo, ha finito per fagocitare il film. Rimangono solamente alcuni spunti visivi interessanti ma si perde di vista il focus narrativo, cosa che nessun buon film di genere dovrebbe fare, e che era il punto forte del cinema di Garland fino a questo punto; la creazione di una narrazione di genere perfetta, elevata dalla messa in scena e dall’inserimento di temi profondi che convivono allo stesso tempo, creando più piani di lettura.
Non è un film orribile, e nel suo genere rimane comunque una visione molto più interessante di qualsiasi prodotto come La Llorona e simili, ma dispiace che un autore come lui sia caduto nella stessa trappola “artistica” de Il Cavaliere Verde. Nella speranza che il regista possa fare tesoro dell’esperienza di questo film, aspetto comunque con grandissima curiosità la prossima opera di Garland, Civil War, con la quale tornerà alla fantascienza ma sempre prodotto dalla A24.
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