Dopo una pausa di quasi due anni dalla stagione 2 – probabilmente per via della pandemia che ha rallentato i ritmi di produzione anche di un colosso come Amazon – The Boys è finalmente tornata sui nostri schermi domestici, in tutto il suo splendore e la sua satira cinica. Dopo aver praticamente concluso il suo primo arco narrativo, la serie di Eric Kripke ricomincia con un piccolo time skip di un anno, dove gli equilibri si sono ribilanciati: Patriota è completamente dissociato dalla realtà dopo “l’incidente Stormfront” e i nostri ragazzi sono ormai una forza governativa riconosciuta, cosa che a Butcher rimane un po’ stretta.
In questa terza stagione, finora la più “statica” della serie, non si porta avanti tanto la trama principale che forse rimane un po’ arenata (rispetto a quello a cui siamo stati abituati), quanto lo sviluppo piscologico dei personaggi, tutti al limite massimo della sopportazione e del conflitto interiore.
Se si volesse cercare un sottotitolo per questa stagione, probabilmente il più adatto sarebbe “Sins of the Father“: sia il rapporto con il proprio padre che l’ideale di come essere un buon padre infatti sono due temi che toccano quasi la totalità dei personaggi. Patriota è combattuto tra il non aver mai avuto un padre e doverlo essere per Ryan, che a sua volta viene sballottato emotivamente tra quello biologico e quello acquisito, Butcher. Anche il capo dei Boys, nonostante l’incontro con il padre nella stagione precedente, non ha ancora superato i suoi traumi interiori, tanto da avere un episodio (il 7, “Ecco un cero per illuminare il giaciglio”) quasi interamente dedicato al suo passato. Il personaggio più analizzato di questa stagione però è probabilmente Latte Materno: tutti i traumi legati alla sua famiglia e al suo essere padre vengono accentuati non solo dalla separazione con la moglie, ma soprattutto dall’arrivo in scena di Soldatino (Jensen Ackles), legato a doppio filo con la sua storia in una situazione che ricorda molto quella di Hughie nella prima stagione.
Se la sensazione potrebbe essere un po’ quella di una di ripetizione, con una nuova sottotrama (Soldatino) che come per la seconda stagione (Stormfront) distrae dalla minaccia principale, ovvero Patriota, in realtà lo sviluppo subdolo di quest’ultimo funziona perfettamente, delineando un carattere psicotico/borderline raramente trattato così bene. Con tutto il tempo a disposizione, il personaggio interpretato da Antony Starr – che ci regala una delle performance attoriali più imponenti nella storia recente delle serie tv – diventa il vero protagonista dello show, ergendosi come simulacro dei nuovi Stati Uniti del 21° Secolo: un Paese/Uomo che non sa gestire tutta la sua potenza, che nasconde le sue magagne sotto un’apparenza costruita perfettamente e che piange disperatamente per essere sempre al centro dell’attenzione.
Infatti è diventato preponderante anche il commentario sociopolitico che già dalla seconda stagione aveva avuto più spazio, e che delinea una società ormai senza alcuna moralità e limite che non sia quello economico. Anche l’aggiunta di Soldatino, che rappresenta i “vecchi” Stati Uniti, quelli della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, crea un contrasto evidente tra due società equamente terribili, annullando l’idea romantica del “si stava meglio quando si stava peggio”. Soldatino è l’America che non ha paura di mostrare tutto il suo razzismo e sessismo, che sguazza nella sua presunta superiorità, che deve accuratamente nascondere e mai affrontare ogni sorta di complesso interiore, perché ritenuto sintomo di debolezza. Un’America sì fondata sull’immagine di sé, ma orgogliosa di tutte quelle “qualità” che oggi tenta di nascondere.
L’introduzione di questo “fantasma” del passato, che come per Stormfront non invecchia e sembra essere sempre stato lì, in attesa, giudicante, è stato un ottimo modo per scavare all’interno dei personaggi con flashback mirati e sempre interessanti, in cui anche il tanto bistrattato Black Noir viene approfondito e sviscerato. Grazie a questa presenza riusciamo a scoprire di più anche su personaggi imperscrutabili come Mallory o Edgar, soprattutto quest’ultimo, presente in modo fondamentale all’inizio della stagione.
Se questa può essere considerata la stagione dei padri, è consequenzialmente anche la stagione dei “parricidi”, anche se solo a livello ideologico. Sono molti infatti i personaggi che uccidono idealmente il loro padre, il loro superiore, quel qualcuno che li blocca, per sviluppare completamente la propria personalità ed essere completamente liberi, come Victoria Neuman o persino Frenchie, che in questi episodi espande in maniera perfetta il suo rapporto sentimentale con Kimiko, costruendo scene che sono forse tra le più emotive dell’intera serie.
In quella che può essere definita senza problemi di sorta una stagione “d’assestamento” per avviarsi verso un finale – soprattutto considerando l’ultimo episodio, che crea un precedente impossibile da annullare nel futuro, e che porterà per forza a conseguenze tragiche – troviamo comunque momenti di tensione veramente ben costruiti, e la brutalità con cui sono stati trattati alcuni personaggi, che siano morti o anche solo “traumatizzati”, lascia presagire in che direzione lo showrunner voglia andare. Quello che dispiace di più, a mio parere, è il modo affrettato in cui è stata trattata Queen Maeve (Dominique McElligott): sebbene il suo arco all’interno della stagione sia interessante, le ultime scene cozzano con tutto quello che è stato costruito prima, e già solo averle tenute per la prossima stagione avrebbe avuto un impatto diverso.
Nonostante questo, è come se fosse avvenuto un’ideale passaggio di testimone tra Maeve e Starlight, la quale, in un percorso di limite della sopportazione simile a quello di Patriota, in questa terza tranche di episodi si libera completamente dai freni inibitori e diventa davvero una “minaccia” per quello che ormai è il dio incontrastato della Vought. Il sopruso psicologico, non solo da parte della famiglia ma anche da parte della società americana, che vuole vedere sempre tutti al massimo della forma e perfetti, è un altro dei temi fondanti di questa stagione, che per i personaggi principali è un limite da superare. Non a caso i protagonisti devono ricorrere a una specie di “droga” pur di oltrepassare i loro limiti, finendo quindi ad essere davvero dei reietti pur di arrivare ai loro obiettivi, non sopportando più la gabbia che il compiere azioni in modo “lecito” comporta.
Al termine della terza stagione di The Boys, quella che rimane è una sensazione di appagamento mista però ad un leggero malessere, dato dal fatto che forse le prime avvisaglie di ripetizione iniziano a sentirsi. Sia chiaro, la serie rimane ancora un punto altissimo della televisione e una delle poche narrative davvero interessanti sui supereroi attualmente in circolazione, ma lo show di Kripke deve obbligatoriamente trovare una nuova chiave di volta che possa cambiare le carte in tavola in modo permanente.
Se verrà ufficializzata la vicinanza di una conclusione non credo ci saranno problemi da questo punto di vista, mentre avrei molta più paura se il numero di stagioni iniziasse a salire vertiginosamente. Purtroppo, nonostante le loro gesta rimangano lo stesso esilaranti e piene di significato, è un peccato ad esempio che personaggi come Abisso o A-Train ormai vengano sacrificati quasi al ruolo di macchiette. Sperando in uno sviluppo successivo degno e completo, The Boys rimane comunque un must per chiunque sia appassionato di questo genere di narrazione, ma soprattutto per chi non ci si è mai avvicinato, essendo forse l’unico modo per far digerire i supereroi a chi, giustamente, li vede sempre come troppo “patinati”.
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