Dopo il disastro intitolato Resident Evil: Infinite Darkness, Capcom ci ha riprovato: questa volta, per tentare di donare un adattamento come si deve al suo franchise più famoso e amato, ha giocato la carta della serie TV live-action, rivolgendosi nuovamente al colosso dello streaming Netflix. Devo essere sincero, il trailer ufficiale mi aveva fatto ben sperare e sottolineo “aveva” perché, se avete letto il titolo e sbirciato il voto di questa recensione, penso immaginiate con che spirito io abbia intenzione di discutere di Resident Evil: La serie. Sintetizzando al massimo potrei limitarmi a dire che rimpiango Welcome To Raccoon City (alla faccia di chi mi ha tacciato di pazzia per averlo apprezzato). Ironia a parte, purtroppo in quanto fan ho molto da raccontare e di cui lamentarmi anche se, credetemi, non avrei voluto.
Nel lungo periodo che ha preceduto l’uscita, autori e produttori hanno messo subito le mani avanti affermando che la suddetta serie non avrebbe seguito la storyline originale dei “bambini Wesker” che gli appassionati conoscono bene, ma avrebbe invece raccontato la storia di Jade e Billie Wesker, due personaggi inediti facenti parte di una timeline totalmente differente rispetto a quanto visto nei precedenti film e in alcuni videogiochi. Una premessa interessante, “aria fresca per Resident Evil” ho pensato io: finalmente un adattamento che si stacca dalle radici consolidate per tentare di donare qualcosa di inedito, senza infangare ciò che di buono è stato fatto in passato. Tutto fantastico… solo sulla carta però.
“Gli scienziati dicevano che il mondo sarebbe finito nel 2036” a causa del cambiamento climatico e dell’inquinamento, ma in realtà la fine è arrivata molto prima: nel 2022. Il primo episodio – diretto da Bronwen Hughes e scritto da Andrew Dabb, due dei produttori esecutivi – si apre a Londra proprio nel 2036, quattordici anni dopo l’apocalisse. Il nostro pianeta è malato e impoverito, e le atmosfere ricordano alla lontana quelle di Mad Max e The Last of Us. In questa ambientazione spiccatamente post-apocalittica si muove Jade Wesker (Ella Balinska), una ricercatrice che da mesi non vede la figlia e il marito Arjun (Ahad Raza Mir), poiché impegnata a studiare il comportamento degli zombie per comprenderne l’evoluzione e le capacità intellettive. I non-morti sono ovunque, ben sei miliardi contro i trecento milioni di umani rimasti. Vengono chiamati Zero e sono delle creature dall’olfatto molto sviluppato, a scapito degli altri sensi. Il buon vecchio virus T, insomma, torna anche in questa iterazione e la protagonista, durante il suo lungo viaggio, cerca di capire se si indebolirà o meno: solo osservando attentamente gli effetti del contagio è possibile contenere la pandemia che ha messo in ginocchio la Terra e con cui gli uomini ormai convivono (è abbastanza palese una strizzata d’occhio al COVID-19).
Dal canto suo, la Umbrella Corporation fa del suo meglio per arginare il disastro, controllando la maggior parte dei territori franchi. L’azienda, inoltre, ha messo una taglia sui cosiddetti sopravvissuti di cui la giovane Wesker fa parte. La donna quindi – in qualità di ricercata numero uno – fugge per salvarsi la vita e per raggiungere l’Università, la base sicura da cui è iniziata la sua spedizione, prima che la corporazione guidata da un certo Baxter (Turlough Convery) la catturi. Concedo una nota di merito proprio a quest’ultimo che – nel suo piccolo – dà prova di non essere un banale e inetto personaggio comico, lasciando a voi lettori scoprire il suo arco narrativo.
Intendo elogiare anche l’interessante approfondimento che la serie fa sul modo in cui i comprimari minori si adattano al mondo in rovina: si passa dal traffico illegale di esseri umani e merci fino ad arrivare a bische clandestine gestite dai Cercatori, predoni che lucrano su tecnologia rubata e oggetti preziosi. In questo crogiolo di disperazione, esiste persino un’organizzazione di fondamentalisti religiosi chiamata La Fratellanza – di base a Calais – che detesta la Umbrella ma porta avanti pratiche altrettanto controverse.
Come da canone, la puntata iniziale setta quindi le ambientazioni, ma non è finita qui. Viene subito compiuto un salto indietro nel tempo per tornare nel fatidico 2022 e mostrare New Raccoon City, tre mesi prima dell’apocalisse. L’algida – in tutti i sensi – città distopica è un ex complesso industriale in Sud Africa, vicino a Città del Capo. L’Umbrella, a seguito di un malaugurato incidente a Tijuana in Messico, l’ha convertito in un nuovo centro di produzione dove controlla ogni aspetto della vita quotidiana, persino internet. Qui facciamo la conoscenza di una Jade quattordicenne (Tamara Smart) e di sua sorella Billie (Siena Agudong): le due sono molto legate e la seconda ha, prevedibilmente, un ruolo di fondamentale importanza nell’intreccio narrativo.
Il primo elemento controverso che affligge l’intera serie TV è però un altro coprotagonista, ovvero Albert Wesker, il padre delle due ragazzine. Benché Lance Reddick (John Wick 3: Parabellum, Godzilla vs. Kong), che lo interpreta, sia l’attore più brillante dell’intero cast, il suo personaggio non c’entra nulla con la controparte videoludica, sia perché viene portato in scena da un attore di colore, sia perché – nell’episodio 7 – il suo background viene rimaneggiato e per certi versi stravolto con un twist che complica inutilmente gli eventi narrati. Una pratica a cui purtroppo i live-action targati Netflix ci hanno tristemente abituato.
Ad ogni modo, si tratta di un uomo freddo con il prossimo, ma amorevole e protettivo con le figlie. Ha oscuri segreti ed è il creatore di Joy, un farmaco che rende felici le persone e capace di curare svariate malattie mentali; del Prozac sotto steroidi insomma. Il medicinale ha ovviamente gravi effetti collaterali che potete immaginare, dato che contiene un derivato del già citato virus T. Wesker dunque non vorrebbe lanciarlo sul mercato, ma i piani dell’Umbrella Corporation per cui lavora come scienziato sono ben altri: ripulire la propria immagine mettendo sotto al tappeto i vari scandali legali, grazie alla produzione e al commercio di farmaci da banco. In altre parole, cambiare il mondo attraverso una perversa filantropia.
Dopo aver orchestrato queste premesse narrative, il resto della puntata dà il via a un andazzo destinato a perdurare per quasi tutta la storia: indugiare. Ci si sofferma ad esempio sulle vite personali e scolastiche di Billie e Jade, momenti inutili e noiosi per un Resident Evil. La serie dovrebbe essere un horror, non un teen drama accompagnato da brani pop su licenza, identico ad altre decine nel catalogo Netflix. Credo che il motivo di questa trovata – che è e resta errata – stia nell’aver voluto coinvolgere il pubblico più giovane e generalista. In questi frangenti si approfondiscono i protagonisti insieme agli avvenimenti che hanno portato al primo focolaio del virus T.
È innegabile che questo pilot fatichi molto a ingranare a causa delle sue due anime in contrasto: una parte più riuscita (il futuro) e una meno (il passato). Passare da una narrazione all’altra – tra 2036 e 2022 – spezza troppo lo scorrere degli eventi, così come il ritmo. Si sarebbe dovuto puntare di più sulla porzione post-apocalittica, dal momento che quella ambientata a New Raccoon City risulta poco ispirata, debole dal punto di vista della scrittura e minata da fastidiosi cliché che annacquano l’incedere del racconto. Il mix si riprende solamente in chiusura grazie a discreti colpi di scena che, tra l’altro, sono oculatamente distribuiti alla fine di ogni puntata.
Superato con qualche sforzo il pilot, Resident Evil: La serie si riprende bene e prosegue spingendo l’acceleratore sulla componente zombie. Si viene poi a conoscenza dell’antagonista vera e propria: Evelyn Marcus, la nuova amministratrice del colosso farmaceutico, figlia del fondatore James Marcus (poi radiato dall’organizzazione stessa). Un villain ricattatore e imperscrutabile che vuole ripulire l’immagine della vecchia Umbrella, danneggiata dagli eventi della prima Raccoon City nel 1998. Il suo personaggio è forse il sassolino più irritante che desidero togliermi dalla scarpa per vari motivi.
Per prima cosa, senza un motivo apparente se non le solite politiche inclusive totalmente randomiche di Netflix, la donna è lesbica. È logico che la mia critica non vuole dare adito a ingiustificata omofobia, quanto bersagliare le ormai note scelte forzate che la piattaforma streaming impone. In secondo luogo – ed è questo il difetto più lampante – si tratta di un personaggio che risulta subito insopportabile e con cui è impossibile empatizzare. La ragione sta nel suo essere stereotipata, troppo sopra le righe, testarda come un mulo, piatta come un foglio di carta e non esente dal mettere in scena svariati siparetti imbarazzanti, complice la scadente interpretazione di Paola Núñez (Bad Boys for Life). Per riassumere, Evelyn è un altro prodotto dell’ingombrante politically correct a marchio Netflix, l’azienda che inserisce insipidi personaggi femminili solo per garantire la presenza in scena di girl power artefatto.
Un’altra sbavatura che mi ha fatto storcere il naso è l’incidente scatenante, fautore di tutto il conflitto tra le protagoniste e l’Umbrella iniziato nel 2022, riassumibile in: Billie è vegana e scopre, a differenza degli animalisti e dell’opinione pubblica, che presso l’azienda del padre – che è andata a visitare proprio su invito del genitore – sperimentano sugli animali. Vuole quindi rubare un coniglio e spargere la voce per ribellarsi a questa pratica disgustosa. Il problema è semplice: non è credibile che la ragazzina – aiutata dalla sorella – riesca a entrare in un laboratorio di massima sicurezza semplicemente rubando il pass di Albert Wesker e sfruttando poi un banale raggiro scoperto su internet. A dirla tutta, la maggior parte degli effetti domino che hanno luogo durante la serie avvengono per motivi sciocchi e negligenza ingiustificata – per non dire stupida incoscienza – da parte dei personaggi cardine. Gli sceneggiatori hanno messo a dura prova la mia pazienza a più riprese.
Proprio a proposito di effetti domino, la nostra Jade Wesker – a seguito dello scompiglio che inevitabilmente si crea – si rivolge ad Angel Rubio (Evan Hengst), un giornalista investigativo che come lei vuole scoprire la verità. L’uomo infatti indaga da anni sulle violazioni di salute e sicurezza commesse dalla Umbrella e sulle sue bugie, ma non è l’unico a supportare la ragazza: Simon (Connor Gosatti), un compagno di scuola particolarmente abile con la sicurezza informatica e molto vicino alla ditta farmaceutica, fa il possibile per bucarne i sistemi. Questa ricerca crea contrasti tra le due sorelle, problemi che si acuiscono nel maledetto quinto episodio: il punto dove la serie si inchioda per poi iniziare a rasentare la soap opera, calando sempre più di qualità.
Se le prime quattro puntate si possono ritenere tutto sommato buone per andamento e mix drammatico – tra queste “La svolta” è la migliore – le restanti risultano sia molto tirate per le lunghe, sia davvero lontane da qualcosa che potremmo trovare in un Resident Evil, nonostante la scoperta di importanti elementi di trama e rimandi che si collegano anche ai videogiochi (e che fortunatamente si sforzano quantomeno di essere coerenti e non casuali). Stratificare su più livelli personaggi e storia è indubbiamente importante, ma è possibile farlo senza affossare il ritmo generale con drammi adolescenziali interamente ambientati a New Raccoon City. Un ulteriore chiodo sulla bara arriva con l’episodio 6 – 45 minuti buttati tra insensatezze e lungaggini – dove gli immancabili morti viventi vengono quasi totalmente messi in disparte.
Si preferisce sfruttare il minutaggio per sviscerare ulteriormente il rapporto tra Jade e Billie che, alla fine dei conti, non è del tutto cristallino. Viene da chiedersi, per esempio, perché una delle due – in specifici momenti clou nel 2036 – si comporti in un certo modo, spesso in contrasto con la sua controparte passata. La serie tenta di chiarirlo in maniera raffazzonata, lasciando molto all’interpretazione dello spettatore che difficilmente può comprendere certe scelte; la narrazione, in fin dei conti, si concentra su tutt’altro.
Oltretutto, gli avvenimenti che coinvolgono la Jade del futuro mentre cerca di rimediare agli errori commessi dal padre, che occupano quasi tutti gli episodi da qui in poi, sono di semplice contorno e – per quanto arricchiscano la sua figura di madre, moglie e sorella – risultano davvero futili e in opposizione con il mood generale della storia, che in questi frangenti diventa una tragedia mielosa e pesante. Non bastano né i già citati twist in chiusura di ogni puntata per rattoppare le cose, né la nostra eroina che dimostra almeno di essere un personaggio carismatico e credibile (sebbene perfettamente aderente ai canoni banali della action heroine tutta d’un pezzo).
Con rammarico, continuo ad elencare una sequela di errori e lacune che questa serie Netflix fa poco per evitare. Una delle inequivocabili sviste accomuna questo prodotto a Obi-Wan Kenobi, nel fatto che i personaggi principali non possono essere realmente in pericolo di morte. Mi spiego: gli eventi del 2036 rivelano alcune informazioni relative al destino di certe figure e quindi, quando lo spettatore le incontra o le vede agire nel 2022, non teme affatto per la loro incolumità. In altre parole, sa che non andranno incontro a insidi fatali, e questo mina la costruzione della tensione, oltre a rendere prevedibili alcuni colpi di scena.
Il finale di stagione non salva baracca e burattini, anzi, mette il sale sulle ferite. Fortunatamente l’evoluzione di Albert, Jade e Billie Wesker giunge debitamente a compimento in sintonia con la loro ragion d’essere, tuttavia si continua a calcare la mano sui rapporti umani e la componente horror-action viene quasi completamente meno, accrescendo una brutta sensazione di piattezza. Tanti dubbi e altrettante domande senza risposta permangono dopo la chiusura. Risposte che sarebbero potute arrivare, ma che sono state ignorate per concentrarsi maldestramente su altro, indugiando su questioni secondarie. Tutte le sorprese più grandi e le svolte più importanti sono state concentrate frettolosamente negli ultimi due episodi, unendole a eventi su eventi che portano solo ad una saturazione drammatica non richiesta. Giunti agli sgoccioli, i quesiti insoluti e le questioni in sospeso aprono certamente ad una seconda stagione; se l’andazzo è questo, tuttavia, meglio stroncare il progetto.
Insomma, Resident Evil: La serie non è autoconclusiva né va a parare da qualche parte. Sicuramente alcune delle domande più calzanti alla fine di tutto sono: questo prodotto cosa aggiunge al franchise? Cosa ha voluto raccontare e perché? Ne è valsa la pena? Ma soprattutto: era necessario? Personalmente, quello che posso dire di aver provato durante i titoli di coda è stato un pesante senso di insoddisfazione.
Sono convinto che il problema fondamentale di questo ennesimo adattamento di Resident Evil sia il suo non sapere cosa vuole essere, complici i salti temporali, gli innumerevoli cambi di registi e sceneggiatori, un mix di generi inconciliabili e il non aver capito a quale target dedicare l’opera. Se dovessi usare degli aggettivi per sintetizzare questo prodotto, sarebbero “incostante e incerto“. Andrew Dabb (Supernatural), in qualità di showrunner, ha messo troppa carne al fuoco risultando mediocre – spesso insufficiente – in tutto e non eccellendo in nulla. Per tornare all’inizio dell’articolo, sottolineo come il tanto odiato Welcome To Raccoon City – per quanto problematico – sia perlomeno un film dell’orrore targato Resident Evil dall’inizio alla fine, con una precisa identità. In Resident Evil: La serie si mischiano troppi elementi, alcuni convincono, altri per nulla: un minestrone annacquato e altalenante che funziona solo a metà.
Un vero peccato, anche perché il lato tecnico non è così male: la regia si attesta tutto sommato su livelli buoni, con qualche sequenza d’impatto, nonostante certe scene d’azione dal montaggio troppo veloce e dai caotici movimenti con macchina a mano. Ho apprezzato gli inserti più spiccatamente gore e gli effetti speciali curati dalla Light Iron, ben miscelati con la messa in scena. Quanto agli zombie, sono uno dei pochi elementi davvero positivi del progetto: il trucco e i costumi non sono niente male; altrettanto curati gli ambienti e le scenografie supervisionati dal Production Designer James Foster (007: Skyfall).
Questa serie live-action poteva essere un’espansione del franchise interessante, ma purtroppo non sfrutta fino in fondo i suoi pochi punti di forza e le sue proposte interpretative, rimanendo l’ennesima occasione sprecata che preferisce stravolgere l’eredita della saga originale e viaggiare su binari confusi e spesso distanti dalle atmosfere e dai canoni di Resident Evil.
https://youtu.be/jhVuuM74alk
Per tornare all’inizio dell’articolo, sottolineo come il tanto odiato Welcome To Raccoon City – per quanto problematico – sia perlomeno un film dell’orrore targato Resident Evil dall’inizio alla fine, con una precisa identità. In Resident Evil: La serie si mischiano troppi elementi, alcuni convincono, altri per nulla: un minestrone annacquato e altalenante che funziona solo a metà.
Ti voglio far riflettere rileggendo questa parte, considerando che in Welcome to Racoon City sono buttati dentro riferimenti ad almeno 5 videogiochi e mescolati random.
Sui gusti non discuto, ma che Welcome to Racoon City non sia un accozzaglia di roba presa dai videogiochi mescolata a cacchio, lasciami dissentire
Nella parte dell’articolo che tu hai citato, con “si mischiano troppi elementi” io non ho inteso i riferimenti alla saga videoludica bensì elementi di carattere narrativo. La serie passa dall’action al teen drama in maniera confusa, non è un prodotto molto a fuoco. Quello è il senso del paragrafo. Resident Evil: La serie vorrebbe essere uno zombie horror e ci riesce solo in parte perché, nel corso delle puntate, mischia suggestioni su suggestioni senza svilupparne a dovere nessuna; i riferimenti ai videogiochi non c’entrano, di quelli ho parlato in un altro punto della recensione. A proposito di Welcome To Raccoon City – non so se tu abbia letto o meno il mio articolo a riguardo – io dissi chiaramente che l’aver mischiato eventi di RE1 e RE2 in un’unica soluzione ha creato diversi problemi: certe citazioni al franchise funzionano, altre meno, questo è vero. Spero di aver chiarito la mia posizione
[SPOILER]
Nessuno ha notato un errore che dire grossolano è poco. Nel finale, la figlia di Jade viene attaccata a bordo della nave dalla donna/zombie recuperata dal fondale marino, quindi non è invulnerabile… Quando il megacoccodrillo se la potrebbe pappare invece non lo fa, come se lei fosse immune. Grossissimo errore di trama che vanifica ogni pseudo spiegazione scientifica
È vero! Ho notato anche io questa grossa incongruenza, ma non ho voluto riportarla nella recensione per evitare qualsiasi tipo di spoiler. Credo sia stata causata – come ho riportato nell’articolo – dai numerosi cambi di sceneggiatore di episodio in episodio. Quando una serie viene maneggiata da troppi screenwriter non è quasi mai un buon segno: gli scivoloni sono dietro l’angolo.