David Leitch (Atomica Bionda, Deadpool 2) dopo il deludente scivolone causato da Fast & Furious – Hobbs & Shaw è tornato in grande spolvero con Bullet Train, adattamento statunitense de I sette killer dello Shinkansen, celebre romanzo thriller di Kōtarō Isaka che ha riscosso un buon successo anche in Italia. È un film impattante proprio come un treno ad alta velocità in pieno viso, scopriamo quindi cosa ha da offrire il suo regista, notoriamente a suo agio nel genere action.
Le premesse di trama paiono molto lineari e si presentano come segue: Ladybug (Brad Pitt) è un assassino al soldo di Maria Beetle (Sandra Bullock), una committente che lo manda a Tokyo – prima che lui possa porre fine alla sua carriera a causa di svariati problemi personali – chiedendogli di rubare una valigetta contenente 10 milioni di dollari. Quest’ultima si trova a bordo dello Shinkansen diretto a Kyoto: l’obiettivo dell’uomo è portare a termine lo scippo per poi scendere alla prima fermata disponibile, un lavoro apparentemente semplice. A complicare le cose, tuttavia, è la presenza di altri sette sicari i cui piani – come si scopre nel corso della storia – sono tutti collegati in qualche modo e mettono in pericolo la vita del protagonista.
I comprimari sono quindi molteplici, tutti portati in scena da attori in gamba. Abbiamo:
- Lemon (Brian Tyree Henry) e Tangerine (Aaron Taylor-Jonhson), una coppia di folli “gemelli” colpevole di molteplici stragi, tra cui una in Bolivia. Questi sono stati ingaggiati da un mafioso russo conosciuto come Morte Bianca (Michael Shannon), poiché suo figlio (Logan Wade Lerman) è stato rapito; ora è sotto la custodia dei due pazzi e deve essere scortato a Kyoto insieme al riscatto (la famosa valigetta da 10 milioni di dollari).
- Yuichi Kimura (Andrew Koji), un padre di famiglia sulle tracce della persona che ha tentato di uccidere suo figlio Wataru, nipote di un potente malavitoso giapponese (uno splendido Hiroyuki Sanada).
- Prince (Joey King), una sagace ragazzina che vuole eliminare Morte Bianca. Il famigerato e temuto boss, infatti, è pieno di nemici a causa della sua rapida e violenta scalata al potere.
- The Wolf (Bad Bunny), un criminale messicano in cerca di vendetta dopo che il suo cartello della droga è stato sterminato in circostanze misteriose.
- Hornet (Zazie Beetz), un’esperta avvelenatrice dagli scopi poco chiari.
I personaggi, benché siano davvero tanti, vengono tutti caratterizzati e approfonditi a dovere grazie a dialoghi coerenti che ben si adattano alle loro figure, uniti a svariati flashback più o meno lunghi. Per fare qualche esempio: Ladybug è abbastanza imbranato e vive in balia di fortune e sfortune; invece, la parabola vendicativa di The Wolf è talmente stereotipata e volutamente sopra le righe da farlo risultare patetico ed esilarante allo stesso tempo. Davvero divertente è anche il rapporto tra Tangerine e Lemon, credibile e farcito di battutine mai noiose: Lemon difatti è solito citare il cartone animato de Il Trenino Thomas, da cui è ossessionato; una trovata molto più intelligente di quanto possa sembrare (oltre che sinceramente spassosa).
Insomma, è abbastanza chiaro che Bullet Train viaggia sui binari della commedia, discostandosi dai thriller-action classici e avvicinandosi di più a lungometraggi come Free Fire di Ben Wheatley e Smokin’ Aces di Joe Carnahan. Tutto sommato si potrebbe dire che la narrazione interamente ambientata in un treno renda questa pellicola uno Snowpiercer decisamente più caciarone. Fortunatamente la sopracitata componente fracassona – accompagnata da occasionali rotture della quarta parete – non diventa mai eccessiva, complici le buone prove attoriali, soprattutto per quanto riguarda Brad Pitt. Qui la star dà sfogo al suo lato più casinista, senza però assomigliare al fastidioso Ryan Reynolds – qui presente in un cameo – che compare sempre più spesso nei film contemporanei (uno su tutti Red Notice).
So che purtroppo questo adattamento, durante la fase di pre-produzione, è stato aspramente osteggiato e accusato di whitewashing. L’aver trasformato i protagonisti giapponesi in americani, secondo le critiche più in voga, avrebbe minato “l’anima nipponica dell’opera originale” nonché reso ingiustificabile la scelta di ambientare la storia a Tokyo. Personalmente mi schiero con Kōtarō Isaka in persona, che ha descritto la sua creazione come “non legata ad un’etnia specifica“. Stando alle sue dichiarazioni, il voler ambientare o meno il romanzo e Bullet Train stesso in Giappone è una decisione irrilevante dal momento che i loro personaggi “non sono persone reali e probabilmente non sono nemmeno giapponesi“.
In definitiva, non ritengo che il cast sia problematico e che, al contrario, sia la prova che il lavoro di Isaka trascende il banale discorso razziale godendo di un appeal internazionale. Come se non bastasse, la presenza di ottimi attori orientali nel cast, come il già citato Hiroyuki Sanada (Il caso Minamata, Army of the Dead) doppiato in italiano dal sempreverde Haruhiko Yamanouchi, rende vana qualsiasi rimostranza. Contribuiscono a ricreare le giuste atmosfere scontri a suon di katana e scazzottate dove non mancano buffe mascotte.
Venendo a questioni ben più importanti, ciò che sorregge davvero il film – oltre alla mano registica di Leitch – è la sua sceneggiatura brillante e intelligente che si articola tra twist continui, scherzi del karma e del destino, morti improvvise e una tensione di fondo sempre al massimo. È difficile che lo spettatore – messo sulle spine – riesca a prevedere dove la trama andrà effettivamente a parare, dal momento che lo sceneggiatore Zak Olkewicz si diletta nell’eludere le aspettative fino all’ultimo, tradendole sempre sul più bello e mantenendo alto il ritmo generale. Persino una bottiglia d’acqua Fiji può rivelarsi provvidenziale nel momento giusto; in questo senso, voglio lodare l’utilizzo dell’immancabile meccanismo di “setup e payoff” che ripaga il pubblico più attento ai dettagli. In altre parole “la pistola di Čechov prima o poi spara”: i significati di certe situazioni o elementi della storia appaiono chiari solo attraverso improvvisi colpi di scena (qualcuno ha detto Knives Out?).
Il lato tecnico dà poi il suo fondamentale apporto tramite diverse soluzioni estetiche. La regia è chiara pur muovendosi tra funambolismi come zoom, carrellate sinuose, sequenze in slow motion, panoramiche a schiaffo e spostamenti rapidi che rendono Bullet Train simile – ma non troppo – ad un cinefumetto (in senso buono). Le lotte inevitabili e sanguinolente a bordo dello Shinkansen sono variegate e per certi versi fantasiose; non dimentichiamo infatti che tutti i killer devono fare i conti con il resto degli ignari passeggeri, dando luogo a simpatici siparietti ben coreografati (ricordo che David Leitch è stato uno stuntman e coordinatore di attori).
Il tutto è coronato dalla direzione della fotografia firmata da Jonathan Sela (John Wick, Atomica Bionda), che sceglie coerentemente di donare al lungometraggio un’estetica al neon accesa e contrastata – simile ai suoi lavori precedenti – che accentua l’anima pulp delle disavventure di Ladybug e compagni. Impossibile sorvolare sul montaggio esemplare di Elísabet Ronaldsdóttir (Shang-Chi, Kate) che risulta sempre leggibile, complice un uso consapevole di raccordi sul movimento, sull’asse e di risposta.
È un peccato che il buon lavoro di queste maestranze venga in parte rovinato da un finale sì adrenalinico, intrattenente e coeso, ma un po’ troppo catastrofico, laccato e per certi versi posticcio (colpa di certi effetti visivi non proprio limati). In altre parole, un pasticcio di esplosioni e scene al rallentatore non sempre giustificate.
A scanso di qualche inciampo poco raffinato, Bullet Train è un prodotto che diverte e, soprattutto, tiene incollati alla poltrona. Leitch è riuscito a rimettersi in carreggiata, anzi, sui binari giusti con una pellicola piena di dinamismo e ironia, perfetta per un’estate all’insegna dell’azione pura e spettacolare.
Un ringraziamento speciale a Sony Pictures Italia
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