La trasposizione di un’opera d’intrattenimento verso un nuovo medium è sempre un’operazione azzardata: i romanzi, per esempio, quando vengono adattati in film, serie tv, videogiochi o altro si reincarnano in un prodotto non sempre soddisfacente, soprattutto per un problema di forma. Una serie televisiva difficilmente può raccontare un intero romanzo senza tralasciare dettagli importanti legati alla trama, così come un film non può raccontare una storia pensata con una struttura assai diversa da quella cinematografica. Ciò che ne esce fuori dunque è un adattamento che vuole rivolgersi ai fan, ma che per svariati motivi finisce per deludere proprio quest’ultimi, e questo accade soprattutto con i videogiochi.
Nonostante siano poche le trasposizioni di successo, le aziende stanno insistendo sempre di più sulla produzione di film e serie tv (anche anime) tratte dai videogiochi, espandendo i brand in una direzione crossmediale. Da Sonic the Hedgehog di SEGA ad Uncharted di Sony Interactive Entertainment, sono tante le serie videoludiche che stanno apparendo (e appariranno!) sul grande e il piccolo schermo, e alla lista si aggiunge anche Tekken, il leggendario picchiaduro di Bandai Namco. Insieme a Netflix, il colosso nipponico ha guidato lo Studio Hibari nella produzione di un anime intitolato Tekken: Bloodline, che riadatta in 6 episodi l’intera storia di Tekken 3, il capitolo più amato dai fan dello storico franchise.
Come detto in apertura, adattare un videogioco in un film o in una serie tv è un’operazione a dir poco complessa: già solo per la forma con cui viene espressa la storia, risulta quasi impossibile proporre ad un pubblico esigente un adattamento fedele all’opera di riferimento. Un videogioco difatti si prende tutto il tempo necessario per raccontarsi, e lo fa soprattutto attraverso diversi elementi come la main quest, le missioni secondarie e il suo background, pertanto riassumere tutti questi elementi in un formato che ha tempistiche molto ristrette porta necessariamente a compiere delle rinunce. Ed è proprio quello che fa Tekken: Bloodline, presentando ai fan un adattamento non proprio perfetto.
La serie originale Netflix riesce ad offrire a grandi linee una trasposizione tutto sommato rispettosa nei confronti di Tekken 3, narrando in particolare le vicende di Jin Kazama, uno dei personaggi chiave del brand di Bandai Namco. Lo fa partendo dalle sue origini come figlio e allievo di Jun Kazama, per poi addentrarsi di più nella sua oscurità come membro della famiglia Mishima e primogenito di Kazuya, il cui spettro aleggerà per tutta la durata della serie. Sebbene Jin viva assieme alla madre una vita piuttosto ritirata e tranquilla, scandita soprattutto dagli allenamenti nelle arti marziali, l’avvento di un guerriero misterioso scombussolerà la sua quiete, strappando dalle sue braccia la vita dell’adorata madre in uno scontro all’ultimo sangue.
Il demonio, che si identifica come Ogre, trasformerà Jin in un individuo guidato dalla vendetta, la quale verrà presto alimentata dal fuoco dei Mishima. Dopo il tragico evento, il ragazzo si recherà da suo nonno Heihachi, che non solo è a capo della Mishima Zaibatsu, ma è un combattente che non conosce pietà, nemmeno nei confronti di un nipote ormai affranto. Questo incontro porterà Jin ad assimilare lo stile dei Mishima attraverso un cruento allenamento che durerà ben quattro anni, un percorso che lo preparerà alla terza edizione del prestigioso King of Iron Fist Tournament, un torneo organizzato da Heihachi per attirare il temibile Ogre.
La serie curata dallo Studio Hibari dunque riesce a raccontare gli elementi essenziali di Tekken 3, scavando inoltre nei meandri della storia generale del franchise con accenni ad alcuni suoi eventi chiave. Ciò che ho apprezzato maggiormente dell’anime Netflix è il fatto di aver preservato la caratterizzazione dei personaggi, che quindi rispecchiano senza alcun stravolgimento le loro controparti videoludiche. Ci sono diversi fattori che invece mi portano a storcere il naso, tra cui l’assenza di approfondimenti sui vari comprimari e i combattimenti che si svolgono durante il torneo.
Mentre il cast risulta piuttosto nutrito, alcuni combattenti molto amati non hanno ricevuto neppure una scena che li ritragga in azione, saltando di conseguenza gran parte del torneo e dedicando l’attenzione unicamente a Jin e i suoi avversari. Questo è un peccato, specie quando si potevano esibire personaggi come Yoshimitsu, Marshall Law o Anna Williams, che avrebbero indubbiamente impreziosito la serie, però non posso non apprezzare quel minimo di approfondimento riservato ad altri personaggi, primo tra tutti King, che da sempre ha un posto speciale nel cuore del sottoscritto.
Ancor più deludente tuttavia è la durata della serie, che con 6 episodi non riesce a spremere a dovere quel gioiellino videoludico che fu Tekken 3, optando invece per una corsa continua verso i titoli di coda. Bloodline si rivolge dunque ad un pubblico strettamente legato al picchiaduro di Bandai Namco, che conosce a menadito i legami tra i personaggi e i segreti che nella serie Netflix non vengono purtroppo accarezzati, e il puzzle narrativo si ricostruisce dal rapporto che vari personaggi hanno con Heihachi. Come se non bastasse, tutto ciò che avviene nei primi due capitoli della serie videoludica viene solo vagamente accennato, come una verità che tutti vogliono lasciarsi alle spalle il prima possibile.
Tekken: Bloodline in ogni caso non si limita solamente ad adattare la porzione di storia che interessa Tekken 3, ma riesce a trasmetterne l’essenza, sorprendendo rispetto a tante altre trasposizioni. Spesso in questi casi gli spettatori puntano il dito contro gli elementi mancanti e le inesattezze che caratterizzano i punti più critici, dove spesso e volentieri tali anelli deboli sono dettati anche dalle reinterpretazioni degli autori di questi prodotti crossmediali. Tuttavia non è un discorso che interessa l’operato dello Studio Hibari: nonostante gran parte del cast presente venga a malapena approfondito, i personaggi messi più in risalto rispecchiano perfettamente le proprie controparti originali sia nella caratterizzazione che nei combattimenti.
Mi ha davvero stupito l’accuratezza con cui sono state riprodotte le mosse mosse più iconiche di ciascun personaggio e i loro stili di combattimento. Questo passaggio è importante, poiché molti adattamenti oggigiorno tendono a distanziarsi dall’opera di riferimento, deludendo puntualmente anche le più contenute aspettative. La serie inoltre presenta ritmi piuttosto calzanti, intervallando narrazione e azione con un buon dosaggio, sebbene si perda in diversi flashback verso gli ultimi episodi per accrescere il pathos di alcune scene. Ma come viene ritratta l’azione? Quella di Tekken: Bloodline è un’animazione che mescola 2D e 3D, avvalendosi nei momenti di lotta della computer grafica. Per merito di essa, lo Studio Hibari non solo ha inscenato con esattezza le tecniche di ogni combattente, ma ha riprodotto quegli effetti visivi che simulano un colpo andato a segno.
Chi ha giocato ad almeno un capitolo di Tekken sa benissimo che, nel momento in cui un colpo va a segno, l’hitbox viene visualizzata attraverso l’effetto di una luce colorata, che corrisponde all’entità del danno inflitto. Ebbene, persino questo piccolo particolare è stato infuso nei combattimenti più portentosi della serie, ed è qualcosa che difficilmente un fan non può apprezzare. Ciò che invece fa storcere il naso è la stessa animazione: in alcuni casi risulta troppo impacciata, lenta, al punto che alcune tecniche a volte perdono la propria estetica. Sia chiaro, la cura con cui vengono riprodotte è preziosa per questo genere di adattamenti, ma l’uso del 3D ha mostrato inevitabilmente le sue criticità tecniche ed estetiche, andando ad intaccare la qualità effettiva dell’opera.
L’animazione si riprende durante il torneo, mostrando qualche sprazzo interessante soprattutto nei momenti più intensi, ma ciò non basta per far chiudere un occhio al sottoscritto, soprattutto in un momento storico in cui la computer grafica negli anime sta raggiungendo dei picchi interessanti. Le scene d’azione dunque sono il piatto forte della serie, che tolta qualche incertezza tecnica riescono comunque ad intrattenere, mentre un altro elemento che non convince pienamente è il character design.
Ogni combattente di Tekken è caratterizzato da un’estetica molto forte, che ne indica non solo le origini, ma anche il suo stile di combattimento e il suo comportamento. Come sottolineato poc’anzi, i personaggi vantano una caratterizzazione estremamente fedele, e ciò lo si nota soprattutto nel ruolo da doppiogiochista che ha Heihachi. Il picchiaduro di Bandai Namco è stato soggetto diverse volte di adattamenti più o meno disastrosi, ma quello dello Studio Hibari, insieme ai due OAV del 1998 di Tekken: The Animation, risulta un prodotto decisamente migliore rispetto alle controparti cinematografiche dedicate al brand.
Nonostante le lance che si possono spezzare in favore della serie Netflix, il character design dei personaggi è stato oggetto di discussione nelle settimane che hanno preceduto il lancio dell’anime sulla piattaforma streaming del colosso americano. Infatti, sebbene ciascun personaggio sia stato ricreato con grande cura nell’aspetto, lo stile con cui vengono ritratti richiama a grandi linee Tekken: The Animation, riprendendone lo stile anni ’90 e ammodernandolo con un tratto più definito insieme ad una serie di dettagli che ne arricchiscono l’estetica, ottenendo un risultato che però in alcune occasioni lascia a desiderare, come ad esempio nei primi piani.
Tra gli aspetti più problematici dell’anime c’è la regia, che in buona parte delle scene d’azione non riesce ad offrire una resa pulita e chiara delle inquadrature, lasciando allo spettatore l’onere di comprendere ciò che avviene su schermo. Seguono subito dopo gli sfondi: i videogiochi ci hanno sempre abituato ad ambienti ricchi di elementi, invece la serie mette in tavola dei fondali decisamente vuoti, come se il team dello Studio Hibari non avesse avuto il tempo di “riempire gli spazi”, il che è desolante soprattutto per la portata dell’evento principale della serie.
Sul doppiaggio posso confermare che in lingua originale ritroviamo buona parte del cast della serie di videogiochi (ad eccezione di Heihachi, con Taiten Kusunoki che rimpiazza il compianto Unsho Ishizuka), mentre per quello nostrano troviamo un assortimento davvero niente male. Ezio Volo (Ulqiorra Schiffer in Bleach, Tomioka Jiyuu in Demon Slayer) nel ruolo di Jin Kazama riesce a trasmettere il carattere pacifico e al contempo vendicativo del giovane Mishima, mentre a mio avviso Luca Graziani (diversi ruoli in Full Metal Panic e nei Simpson) nel ruolo di Heihachi restituisce la medesima cattiveria del volpone di casa Mishima, malgrado in alcune occasioni mi sia risultato molto forzato.
Tekken: Bloodline si presenta come un buon adattamento del leggendario picchiaduro di Bandai Namco, per quanto non sia esente da problemi rilevanti. Ma se vogliamo guardare allo storico della serie sul piccolo e grande schermo, penso che attualmente non esista una trasposizione migliore della serie Netflix, che a mio avviso riesce a proporre un prodotto rispettoso nei confronti del suo target di riferimento.
Si è persa però l’occasione per dare spazio ad alcuni personaggi molto amati dai fan, e soprattutto per dare una forma migliore alle scene di combattimento che sì, sono tutto sommato buone, ma per i risultati raggiunti oggi con l’animazione sia tradizionale che in 3D avrebbe potuto offrire molto di più ai suoi spettatori. Il discusso character design infine non apporta cambiamenti drastici all’estetica dei personaggi, i quali si mostrano con i loro iconici outfit, un punto decisamente a favore per l’accuratezza.
Se siete fan di Tekken e i vostri preziosi ricordi videoludici giacciono nei menù di Tekken 3, Tekken: Bloodline fa sicuramente al caso vostro. Al contrario, in mancanza di un qualsiasi approccio con i giochi originali, vi sarà difficile apprezzare gli sforzi compiuti dallo Studio Hibari.
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