A distanza di 5 anni dal controverso e radicale Madre!, Darren Aronofsky torna al cinema presentando in concorso a Venezia The Whale, un film più terreno e concreto rispetto al precedente, riconducibile per tematiche e stile al suo The Wrestler che nel 2010 aveva vinto il Leone d’oro. Tratto dall’omonima pièce teatrale di Samuel D. Hunter, il film vede anche il ritorno di Brendan Fraser ad un ruolo da protagonista dopo oltre 10 anni, snobbato dall’industria cinematografica che, proprio come Mickey Rourke, non lo vedeva più appetibile a causa dei suoi cambiamenti fisici, che sono anche il tema cardine del film.
Charlie (Fraser) è un professore universitario di inglese che, a causa della sua condizione – una grave forma di obesità che lo porta a pesare 272 Kg – è ridotto a rimanere sempre in casa e tenere corsi online, nei quali però non si fa mai vedere per la vergogna. La sua situazione fisica peggiora di giorno in giorno tanto che Liz (Hong Chau), la sua amica infermiera che gli presta spesso aiuto, lo avverte che potrebbe non arrivare a vedere la fine della settimana, il che lo spinge a riallacciare i rapporti con sua figlia ormai adolescente (Sadie Sink), che non vede da 9 anni. Charlie ha infatti abbandonato la famiglia quando lei aveva solo 8 anni per seguire l’amore di un suo studente universitario, scoprendosi omosessuale e facendosi così odiare da tutti i suoi familiari.
Aronofsky ricalca l’impianto teatrale dell’opera originale, essendo il film ambientato completamente in un’unica abitazione, ma lo costruisce come se fosse un thriller “home invasion”, tracciando una linea stilistica anche col precedente Madre!. Nonostante qui i personaggi siano più concreti e meno metaforici, molto spesso vanno a crearsi comunque situazioni al limite del grottesco, generando un “orrore domestico” più realistico di quello dell’opera precedente, ma non per questo meno impattante. Anche in questo film il “focolare domestico” per il regista è più simile ad una vampa infernale che acuisce ogni dissapore e rende inevitabile il confronto, come se fosse una penitenza per gli errori commessi, in cui il protagonista è ormai costretto inerme a osservare altri distruggere le proprie vite – come lui ha distrutto la sua – senza poter far niente né per se stesso né per loro.
La vita di Charlie è rinchiusa dentro 4 mura, che per lo spettatore diventano un riquadro in 4:3 che esalta ancora di più la claustrofobicità della situazione; in molte scene dove il protagonista viene ripreso in primo piano, la sua figura impalla completamente l’inquadratura, rendendo la sua presenza ingombrante anche per il pubblico. Charlie ormai si sente un peso per tutti, preferisce sprofondare nel suo dolore, nel suo binge-eating, piuttosto che curarsi all’ospedale – anche per una questione economica, essendo il film ambientato negli USA – e i suoi movimenti sono pochi, lenti e ragionati, così come quelli della macchina da presa.
Il regista non è mai stato così posato e sobrio nel mettere in scena una storia dove, per la prima volta, elimina tutti i virtuosismi estetici per concentrarsi su quelli tecnici, riuscendo così a rendere interessante e dinamica una storia fatta di dialoghi e una casa le cui inquadrature sono per la maggior parte statiche. Aronofsky gioca moltissimo sui campi e controcampi riuscendo a renderli dinamici sia con il movimento degli attori in scena, che spesso cambiano luogo anche durante un dialogo, sia grazie a scavalcamenti di campo giustificati, che invece di confondere riescono ad ampliare la geografia della casa di Charlie, permettendo una varietà di quadri raramente vista in film del genere.
Quello che colpisce di The Whale è inoltre come riesca ad evitare di cadere nel patetismo vittimistico tipico di questo genere di storie, in cui si “ricatta” emotivamente lo spettatore per portarlo a empatizzare forzatamente con un personaggio o delle vicende, spesso per farlo arrivare alla commozione. Qui il protagonista è sicuramente in una condizione che tende al patetismo, ma viene comunque presentato come una persona che non solo ha compiuto degli errori, ma che ha volontariamente fatto delle scelte che hanno determinato il male di altre persone. Stessa cosa per la figlia Ellie, che compie volontariamente delle cattiverie verso il padre ma anche contro chiunque degli altri personaggi, primo fra tutti il giovane predicatore Thomas (Ty Simpkins).
Ogni personaggio di The Whale presenta dei lati oscuri che sono forse persino più grandi dei lati chiari e buoni della loro personalità, e nonostante questo il film riesce comunque a farci empatizzare con loro, permettendoci di capire le ragioni di tutti; vale anche per l’ex moglie Mary (Samantha Morton) – quando spesso in questi casi tutto ciò che è contro il protagonista viene demonizzato – che pur essendo presente in una sola scena è il cuore del senso del film. Un senso che per stessa ammissione del regista si trova tutto in una frase del protagonista: “È impossibile che tutti non abbiano a cuore qualcosa”.
Nonostante la sua atmosfera tetra e funebre – alimentata anche dall’angosciante colonna sonora all’organo di Rob Simonsen – The Whale affonda le sue radici nella speranza per un futuro migliore, rivelando quale sia l’ossessione che questa volta il regista ha voluto indagare: la sincerità. Charlie vuole che i suoi studenti scrivano i loro temi col cuore, esprimendo quello che sentono davvero, così come lui agisce solo in virtù della sua sincerità, esprimendo sempre quello che prova davvero, perché ha sempre creduto nella bontà delle persone. La sua è un’ossessione per il bello che c’è nelle persone, nella convinzione che “le persone sono fantastiche” e che, essendo davvero sé stessi, sia possibile spiegare qualsiasi cosa.
The Whale è sicuramente uno dei migliori film di Aronofsky, in cui riesce a sublimare quel tipo di narrativa che aveva già affrontato in Requiem for a Dream e The Wrestler, inserendo ogni tassello al proprio posto ed evitando pomposità sia narrative che visive. Ciò che rende davvero speciale il film però è proprio l’umanità della sua storia, dove l’inevitabile lacrima viene versata non tanto per la situazione del protagonista, quanto per la presa di coscienza che il mondo che abbiamo contribuito a rendere così cinico e senza speranza è solo il sintomo della nostra paura di essere sinceri e deboli nel vedere del buono nel prossimo.
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