Negli ultimi anni è tornato alla ribalta un modo di fare film horror che da tempo era sparito, portando nuova linfa al genere con pellicole che non basano più tutto il loro valore solamente sullo shock o sulla paura, ma che riflettono intellettualmente su tematiche spesso psicologiche o sociali. La casa di produzione e distribuzione americana A24 è diventata rapidamente un’istituzione per quanto riguarda questa nuova tendenza, generando ovviamente schiere di sostenitori e detrattori, ma quello che ha dell’incredibile è come in così poco tempo si sia arrivati a poter definire un film in “stile A24” nonostante i suoi appena compiuti 10 anni di attività.
Don’t Worry Darling, pur essendo prodotto dalla New Line Cinema, ricade a pieno titolo nel filone degli “A24-like”, dove il genere diventa solo uno strumento per parlare d’altro, in questo caso la condizione delle donne nella società. La regista Olivia Wilde ha perfino scelto come protagonista una delle icone di questa corrente, Florence Pugh, il cui ruolo in Midsommar è già diventato iconico.
La trama è semplice: nell’America degli anni ’50 viene finanziato il Victory Project, con una comunità sperimentale costruita nel bel mezzo del deserto dove far vivere le famiglie degli ingegneri addetti all’esperimento. Tutte le mattine gli uomini partono per il loro lavoro, recandosi nell’enorme complesso situato nel deserto, lontano dal centro abitato, mentre le donne, tutte casalinghe, vivono la loro vita domestica. Quello che colpisce subito di Don’t Worry Darling è l’impianto surreale della vicenda, dove questo idillio della “famiglia perfetta” viene evidenziato da delle scelte di rappresentazione che fanno subito presagire il tema della storia. La primissima scena è infatti un ottimo biglietto da visita del film: tutte le azioni sono fatte quasi completamente in sincrono – enfatizzando l’idea di questa società perfetta “a misura d’uomo”, dove è tutto impostato e poco spontaneo – lasciando intuire che presto qualcosa dovrà inevitabilmente incrinarsi.
Nella prima mezz’ora la costruzione sia drammatica che della tensione sono di buon livello, permettendo una buona immedesimazione nella vicenda, e arrivando persino a destare una discreta curiosità nello spettatore per i vari misteri che vengono messi sul piatto. Quando però l’azione dovrebbe entrare nel vivo, con la nostra protagonista Alice (Florence Pugh) che inizia a compiere i primi passi nella risoluzione del mistero, il film mantiene sempre lo stesso passo, per non dire che quasi rallenti. Scene che la prima volta suscitano un’emozione forte, vengono reiterate fin troppe volte al punto da stuccare lo spettatore che, per tutta la parte centrale, arriva inevitabilmente a capire tutti i risvolti di una trama che da sola non riesce a reggere il peso di un tema del genere. Nonostante qualche intuizione narrativa interessante, mutuata dalla nostra realtà, il film prende sempre più velocemente la piega di un brutto clone di The Truman Show o Il Tredicesimo Piano, senza però avere la stessa la forza nel trattare il messaggio, che qui purtroppo rimane solo il contorno di un compitino a tema.
Argomenti come la sempre più grande diffusione degli incel, la facilità con cui si possa manipolare una mente grazie a circoli viziosi logici ed emotivi, una condizione patriarcale che spesso si nasconde sotto azioni che si credono “benevole”, sono tutti spunti che il film vorrebbe provare a trattare, ma che purtroppo riduce a semplici frasi o immagini banali che difficilmente rimarranno nella memoria dello spettatore. La regia della Wilde se nelle logiche “domestiche” se la cava anche discretamente, fatica ad enfatizzare in modo profondo quello su cui il film vorrebbe concentrarsi, e in più è quasi totalmente incapace di creare situazioni di terrore e orrore degne di nota, essendo tutto reiterato in modo fin troppo ossessivo e manieristico. Anche la colonna sonora, che trae immensa ispirazione dal tema principale di Squid Game – persino le guardie della comunità sono inspiegabilmente vestite come quelle della serie coreana, nonostante siano gli anni ’50 – perde la sua forza e la sua capacità terrorizzante e ansiogena dopo i primi 10 minuti.
È poi nel finale che tutto il castello di carte crolla, rivelando retroattivamente anche piccoli difetti che, se il film si fosse retto sulle sue gambe, non sarebbero stati neanche rilevanti (come l’aereo rosso, totalmente inspiegabile ma fondamentale per far partire l’intera catena di eventi del film). Le ultime sequenze, che vorrebbero citare Thelma & Louise e dare spazio alle donne anche come eroine d’azione, finiscono per diventare involontariamente comiche per la sciatteria di come sono messe in scena. L’ultimo inseguimento in macchina è forse uno dei più brutti che abbia mai visto per coreografia, composizione e coerenza narrativa all’interno di un film. Senza contare il completo “switch” di personalità di alcuni personaggi che, nel finale, da una scena all’altra decidono di aiutare la protagonista dal nulla, portandosi così nella tomba il cattivone interpretato da Chris Pine che, come ogni cattivo super intelligente mal scritto che si rispetti, perde mordente tanto più che rimane su schermo a rendersi involontariamente stupido.
Nonostante le aspre parole, non reputo Don’t Worry Darling un film terribile, ma solo un enorme spreco di tempo e denaro. È impossibile non rimanere amareggiati nel vedere un film che, potenzialmente, avrebbe potuto trattare una tematica così cara al giorno di oggi in modo originale e divertente, ridursi nel più mediocre dei B-Movie degli anni ’80, però con un budget milionario. Ogni scelta nel film, dalla presenza di Harry Styles solo come traino mediatico, alle finte polemiche create per fare pubblicità gratuita alla pellicola, fino all’inserimento di particolari totalmente al di fuori dell’estetica scelta solo per seguire le mode del momento, non viene eseguita per particolari guizzi artistici ma secondo una mera logica produttiva.
Il film di Olivia Wilde dovrebbe diventare un monito sul cinema moderno e sulla sua incapacità di trattare temi e battaglie in modo concreto, riuscendo solo a creare mediocre intrattenimento preconfezionato che non merita neanche – visto il trattamento da stupidi che riserva a noi spettatori – di parlarne in modo approfondito, essendo già fin troppo sulla cresta dell’onda per motivi tutt’altro che artistici. Se il futuro del cinema mainstream è costruire film solo sul gossip, preferisco leggere Novella 2000.
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