Nature judges like a god all men that come to her
Butcher’s Crossing di Gabe Polsky è uno di quei film che passano inosservati in eventi importanti come l’ultima Festa del cinema di Roma, soprattutto se consideriamo il fatto che si tratta di un western. Quest’ultimo è un genere che sta ormai scomparendo e che l’anno scorso è stato alimentato solo da sporadici lungometraggi come Il potere del cane e Cry Macho. Polsky, un regista dedito principalmente ai documentari, cosa vuole raccontare con quest’opera che segna il suo debutto nella fiction? Qual è il suo apporto alla cinematografia dedicata a pistoleri, indiani e fuorilegge?
Partiamo dicendo che la pellicola è tratta dall’omonimo romanzo del 1960 di John Edward Williams, “un libro dal tono biblico, semplice nella struttura ma alto nelle tematiche” che racconta la turbolenta parabola del cacciatore di bestiame Miller (un glaciale Nicolas Cage) e dei suoi compagni, in viaggio insieme a lui nelle terre desolate delle Montagne Rocciose del Colorado. Il suddetto viaggio (della speranza) ha inizio nel 1874, quando un giovane studente di nome Will Andrews (Fred Hechinger) abbandona Harvard perché desideroso di avventura nel Far West. In cerca di qualcosa che possa dare un senso alla sua vita, non perde tempo nell’assoldare il sopracitato Miller e i suoi colleghi: Fred Schneider (Jeremy Bobb), uno scuoiatore professionista dalla lingua lunga, e il vecchio ubriacone Charley Hoge (Xander Berkeley).
L’obiettivo della banda è partire da Saint Louis e arrivare nell’inesplorato e inospitale Colorado, così da portare a termine la battuta di caccia più grande e redditizia che si sia mai vista: il bersaglio è una gigantesca mandria di bisonti americani, la cui pelle vale come l’oro. Vendere la refurtiva presso l’emporio Butcher’s Crossing del furbo J.D. McDonald (Paul Raci) vuol dire diventare ricchi; la traversata, tuttavia, si rivela più rischiosa del previsto.
Will è un debole giovincello naïf senza esperienza, ma gode di un’incrollabile entusiasmo (e dei fondi per finanziare la spedizione, essendo in buoni rapporti con McDonald). È dunque inevitabile il confronto/scontro con il personaggio di Cage che diventa – in quanto veterano dal grilletto infallibile e dallo slang sboccato – un maestro di vita per il ragazzo, forte della sua presenza che incute timore e riverenza. Il mentore instilla virilità nell’allievo in una dinamica fatta di tradimenti e carneficine che riporta alla mente il rapporto tra Willard e Kurtz in Apocalypse Now. Non è un caso quindi che il buon Nicolas Cage si sia ispirato alla performance dell’inarrivabile Marlon Brando per portare sullo schermo il suo Miller, un uomo calvo dall’insaziabile brama di denaro che mette i brividi anche solo fumando la pipa. In poche parole, la personificazione della hybris greca e cristiana che, in barba alla fatica, si muove tra centinaia di carcasse di bisonte bramando sangue e morte.
Alla luce di tutta questa tracotanza, Butcher’s Crossing pone delle domande semplici quanto giustificate: perché cacciare i bisonti? Perché scuoiare animali morti in mezzo al nulla? Fedeli ai precetti promossi dallo scrittore ed editore Horace Greeley – che incitava i giovani cowboy ad espandersi ad ovest – i nostri eroi proseguono il loro cammino nonostante le intemperie e gli ostacoli. Portando avanti la stessa identica routine tutti i giorni per mesi, cedono inevitabilmente alla follia tra freddo gelido, incubi, fiumi di alcol e zizzania. Quest’ultima sorge a causa di naturali dissapori tra Schneider e Charley: il primo egoista e testardo quando si tratta di prendere una decisione qualsiasi, il secondo un timorato di Dio convinto che prima o poi la punizione divina giungerà inarrestabile.
Effettivamente la dimensione teologica e filosofica è preponderante nel film così come nel romanzo da cui è tratto. John Edward Williams lancia quesiti complessi e costringe il lettore (in questo caso spettatore) a confrontarsi con la volubile natura umana, con l’ossessione dell’uomo per la mascolinità e con il rapporto che questo ha con l’ecosistema in cui vive, in un’avventura al contempo sublime e tragica.
Il romanziere statunitense ha voluto contrastare “l’irragionevole stereotipizzazione” che ha investito la narrativa western alla fine della sua età dell’oro. Nel suo racconto sottolinea quindi l’asprezza e la crudeltà del West, evitando il più possibile di glorificare le disavventure di pistoleri e cacciatori. Non solo: a prevalere nel libro – e di riflesso nel lungometraggio – è l’attenzione riservata alla natura. L’esperienza di Andrews e compagni nelle selvagge Montagne Rocciose segue i princìpi del trascendentalismo di Ralph Waldo Emerson, costruendo un binomio tra natura incontaminata e lo sciacallaggio della società americana che nella seconda metà dell’Ottocento si espandeva sempre più. Di conseguenza, l’armonia intrinseca tra l’uomo e il suo habitat si rompe.
Gli antieroi di Butcher’s Crossing scoprono loro stessi spiritualmente, ma comprendono soprattutto quando la già citata natura possa essere potente e impietosa: per sopravvivere non bastano una matura determinazione e la resistenza fisica nonché mentale; l’avido imperialismo e il libero mercato devono fare i conti con il destino e il ferreo giudizio di Dio.
Tutto questo impianto socio-filosofico che sorregge la sceneggiatura di Gabe Polsky e Liam Satre-Meloy è sì lodevole per complessità e profondità, ma costituisce – in parte – anche il suo difetto principale: in qualità di western atipico, assimilabile al summenzionato Il potere del cane, inciampa qui e là per colpa di un ritmo compassato e volutamente lento che punta a far digerire ogni tematica nonché a restituire la pesantezza della missione al centro delle vicende. Alla lunga l’incedere ponderato può venire a noia, nonostante la breve durata del film che si attesta su 1 ora e 45 minuti.
Una premura così accorata per la natura non può che tradursi in un comparto tecnico d’eccezione, che palesa l’amore del regista per i paesaggi impervi che fanno da sfondo alla trama. La sua esperienza come documentarista si esprime attraverso campi lunghi e totali che sembrano veri e proprio quadri, impreziositi dalla direzione della fotografia – non a caso spiccatamente naturalistica – di David Gallego, attenta alla resa della vegetazione e del mondo brullo che accoglie i personaggi. Questi ultimi, dai costumi sporchi e sudici, vengono inquadrati con tonalità scure tendenti all’ocra e al marrone, perfette per rendere al meglio la rozzezza della loro spedizione. Immancabili poi delle riprese dedicate alle mandrie di bufali e alle sinuose cavalcate, seguite da una macchina da presa molto morbida nelle carrellate.
Sempre esteticamente parlando, ognuno dei tre atti che divide l’intreccio assume il ruolo di una stagione: la prima è l’arido autunno ricco di sterpaglie, abbiamo poi il candido e bellissimo inverno che ricorda The Revenant di Iñárritu e infine una luminosa primavera. Tutti capitoli che lasciano senza fiato grazie alle loro identità precise e ad atmosfere non dissimili da Waiting for the Barbarians. Le musiche di Leo Birenberg (Cobra Kai) sono la ciliegina sulla torta poiché dotate di sonorità – vicine a opere videoludiche come Red Dead Redemption 2 e Far Cry 5 – che accompagnano egregiamente la storia.
“Nel 1860 i bisonti in America erano ben 60 milioni; vent’anni dopo, meno di trecento“. Questa è una delle frasi che chiude Butcher’s Crossing, una pellicola nata – elucubrazioni trascendentali a parte – per sensibilizzare il pubblico all’animalismo. A tal proposito, è da evidenziare un dato fondamentale: i bisonti che si vedono nel lungometraggio sono veri, dal momento che sono stati presi in prestito dalla riserva naturale indiana Blackfeet Nation, situata in Montana (luogo delle riprese). Da anni ormai questa organizzazione preserva la fauna e la flora locali, specialmente dopo il 2016, anno in cui il bisonte americano è stato eletto mammifero nazionale degli Stati Uniti d’America.
In conclusione, l’opera di Gabe Polsky non solo rende giustizia allo spinoso romanzo di Williams, ma pone anche gli spettatori di fronte alla pazzia e alla tracotanza umane. Sentimenti distruttivi nei confronti della natura e dei propri simili che, oggi più che mai, rischiano di portarci sull’orlo del baratro. Una volta piombati nell’oscurità, l’intraprendenza della società non ci salverà.
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