Copenhagen Cowboy, tra sfarzo barocco e lotta al patriarcato

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C’è del marcio in Danimarca” scrive Shakespeare nel suo Amleto, e il genietto danese Nicolas Winding Refn (Bronson, Valhalla Rising, Drive, The Neon Demon) è qui per scongiurarlo. Dopo aver superato un periodo buio e di stagnazione causato principalmente dalla pandemia di COVID-19, il cineasta è uscito dal suo “deserto interiore” per tornare dietro alla macchina da presa con Copenhagen Cowboy, miniserie Netflix da 6 episodi, seguito spirituale dell’eccellente Too Old To Die Young.

Girata proprio in Danimarca e accolta con una standing ovation alla 79ª edizione del Festival del Cinema di Venezia, quest’opera unisce tutto ciò che Refn ama e sperimenta attivamente per raggiungere nuove frontiere della narrazione o, per usare le parole del regista, “rendere i prodotti di nicchia il nuovo mainstream“. Come? Con una personalissima parabola supereroistica che spazia tra vari generi apparentemente inconciliabili.

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Miu, la protagonista.

Miu (Angela Bundalovic) è una ragazza diciottenne che sembra spuntata fuori dal nulla, e afferma di possedere poteri paranormali ricevuti da creature extraterrestri con cui è entrata in contatto da piccola. Senza documenti né permesso di soggiorno finisce tra le grinfie di Rosella (Dragana Milutinovic), una grassa e anziana matrona che gestisce, insieme al fratello Andre (Ramadan Huseini), un bordello composto da giovani donne “acquistate” a caro prezzo e lontane dalle loro famiglie. Queste povere prostitute fanno sia da badanti alla vecchia matrona, sia da “bambole” per il sopracitato Andre, che le ricatta e le sfrutta per loschi progetti mafiosi e adescamenti. Dal canto suo Rosella – guidata da folli superstizioni – assolda Miu per poter rimanere incinta: sa infatti che una delle capacità della silenziosa quanto misteriosa ragazzina è infondere la vita in ciò che la circonda, spargendo “fortuna e felicità“.

Sin dai primi minuti è chiaro che la nostra eroina, mossa da ideali ben più puri, ripudia la sua condizione di schiava; decide allora di fuggire dall’infernale casa dei due criminali. Rimasta sola, vaga per Copenhagen in una crociata vendicativa che la porta a lottare contro la malavita dal suo interno, schierandosi dalla parte degli indifesi. Proprio la malavita è il filo rosso che lega Copenhagen Cowboy a Too Old To Die Young e, volendo, anche alla trilogia di Pusher (saga fin troppo sottovalutata del buon NWR). Qui però l’autore arricchisce il tutto con nuove tematiche ancora più crude, prime tra tutte il maschilismo tossico insito nel patriarcato, la misoginia e la violenza sessuale. Dal suo The Neon Demon, poi, cita sé stesso e torna a parlare dell’oggettificazione della donna.

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Metafore sessuali, aggressività carnale e mandrie di maiali – che riportano alla mente lo splendido Amnesia: A Machine for Pigs – esemplificano a dovere la visione del regista danese, che calca la mano mostrando tutta la bestialità dell’uomo, qui ridotto a pigro animale istintivo. Personaggi enigmatici e controversi come Sven (Per Thiim Thim) incarnano tutti i “valori” sopraelencati; dove è incanalato il loro potere dominante? La serie TV dà una risposta sibillina e senza filtri: nel pene.

Prevedibilmente, la maggior parte delle figure maschili della storia sono cariche di negatività, in quanto irruente, crudeli e abituate a sopraffare il prossimo. Non è un caso quindi che, avendo perso totalmente la loro umanità, vengano accomunate ai summenzionati porci. A ergersi a primo antagonista è Nicklas (Andreas Lykke Jørgensen), schizofrenico rampollo di una famiglia ricca e depravata, che gestisce un curioso traffico di suini da una villa di epoca barocca.

Scherzando – ma neanche troppo – c’è spazio anche per i mommy issues di Refn e per un approfondimento di ampio respiro sul concetto di maternità. Gli episodi non temono di essere espliciti e grotteschi mentre esplorano i meandri più oscuri e marci della psicologia. Pazzi, drogati, corrotti e fanatici incrociano il cammino di Miu in una rapida discesa verso il male. Spiccano per caratterizzazione e performance l’avvocato Miroslav (Zlatko Buric) e il mafioso cinese Chiang (Jason Hendil-Forssell); in sostanza, la criminalità ha radici in tutti gli strati della società. C’è persino un cameo di Refn stesso, nell’unico siparietto comico di tutta la serie.

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Nicklas in tutta la sua inquietante bellezza.

Per quanto riguarda Miu più nello specifico, è quasi buffo constatare che si tratta di una protagonista androgina nata da un mix, tanto strano quanto riuscito, tra un cowboy – da cui il titolo dell’opera – una strega e una supereroina (non manca un costume riconoscibile). Estensione ideale del Ryan Gosling visto in Drive e di Mads Mikkelsen in Valhalla Rising, rappresenta a dovere l’essenza di Copenhagen Cowboy: una creazione che mescola e destruttura i generi più disparati, dal western al neo-noir, passando per il new weird.

Come ogni pistolero che si rispetti, Miu non gode di un background preciso: questo resta volutamente avvolto dal mistero e lasciato all’interpretazione dello spettatore. A definirla come personaggio sono le azioni che compie dando sfogo ai suoi poteri – che spaziano da una conoscenza eccelsa delle arti marziali alla telepatia – con cui tiene in pugno la vita degli avversari. Le sue origini, insomma, non sono chiare. Lei parla di un incontro ravvicinato del terzo tipo, mentre al pubblico viene concesso di fantasticare sulle teorie più disparate: potrebbe trattarsi di un fantasma, del nuovo Messia o di un’entità non meglio delineata.

A complicare le cose è poi la comparsa di un’altra figura nelle parti più avanzate del racconto – non dirò chi per evitare spoiler – che si configura come un vero e proprio doppelgänger. Quest’ultimo è identificato dal colore rosso, in palese opposizione cromatica e dialettica con il blu di Miu; una scelta estetica utilizzata a più riprese che mette in scena lo scontro – tutt’altro che manieristico – tra bene e male.

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L’avvocato Miroslav.

Angela Bundalovic, in qualità di ex-ballerina, restituisce un’interpretazione ottima: la sua espressione è glaciale e magnetica; i suoi movimenti sono rigidi e calcolati, come se fosse un automa. Questo suo lato imperturbabile non si traduce necessariamente in un’assenza di empatia nei confronti di chi riceve il suo aiuto, bensì nel desiderio di estraniarsi dal microcosmo barbaro che serpeggia intorno a lei, così da evitare di rimanerne soggiogata.

È proprio la nostra streghetta a guidare gli eventi, dotati di un ritmo non certo al cardiopalma – anzi, intenzionalmente disteso – in cui si alternano comunque vicende variegate che instillano curiosità e scongiurano il rischio di annoiarsi. Nei 6 episodi, dalla durata media di 50 minuti l’uno, dominano i silenzi e le domande che si accavallano nella mente di chi guarda; tese atmosfere lynchane e battute laconiche arricchiscono il resto.

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Il malavitoso Chiang.

Passando alle considerazioni prettamente tecniche, potrei ricorrere a un po’ di romanaccio e liquidare egregiamente il tutto con “Ma a Refn che je voi dì?“. Non sarei molto lontano dalla realtà dei fatti, ma siccome non vorrei risultare scurrile, mi do un contegno. L’eccellente regia è al servizio dei personaggi e di una storia piena di suspense; ansia poi spezzata bruscamente da sequenze action da manuale e attimi di furia animalesca. Non mancano innesti onirici che ricordano capolavori come La montagna sacra o Santa Sangre di Jodorowsky. In tutto ciò, i movimenti di macchina sono delicati e precisi; brillano particolarmente lente panoramiche a 360 gradi e dei long take orgogliosamente teatrali.

Nicolas Winding Refn e il sapiente direttore della fotografia Magnus Nordenhof Jønck (The OA) si sono dati alla pazza gioia con gli immancabili e invidiabili neon, marchio di fabbrica dell’artista danese (ciò sorprende se vi dico che quest’ultimo è daltonico). Ad aggiungere carne al fuoco sono la scenografa e direttrice di produzione Gitte Malling e la costumista Jane Whittaker (Pusher II), i cui contributi indispensabili rendono Copenhagen Cowboy un inquietante e cesellato quadro in movimento che vive di una fusione tra decadentismo, barocchismi floreali e Kitsch.

Refn conferma nuovamente e con forza la sua verve stilosa da esteta quasi dannunziano, capace di donare ai suoi prodotti uno sfarzo sempre, paradossalmente, misurato e mai invasivo. La sua attenzione maniacale si nota soprattutto nelle sfumature di colore delle varie inquadrature e negli ottimi controluce adatti a ogni scena. Ciliegina sulla torta il comparto sonoro a cura del compositore Cliff Martinez (Drive, Far Cry 4, The Neon Demon), che con dell’avvolgente synthwave corona ogni episodio, già di per sé ammaliante.

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Chiudo questa mia disamina con una chicca: Hideo Kojima. Ebbene sì, il game designer giapponese – come accade anche in Too Old To Die Young – compare in un controverso e provocatorio cameo che lascia senza spiegazione un finale appositamente indecifrabile (a cui non seguirà una seconda stagione). Un’apparizione prevedibile, visto il personaggio di Heartman in Death Stranding che sancisce la proficua collaborazione tra i due creativi.

Amici strettamente legati professionalmente e personalmente, “come se fossimo due fratelli siamesi separati dalla nascita” affermano in Brain Structure, podcast condotto da Kojima stesso. La coppia è molto vicina a livello “filosofico e spirituale” quando si tratta di dar vita a un prodotto: si influenzano a vicenda, soprattutto nel modellare i media per sfruttarli in maniera ludica (rompendo quindi le regole della narrativa). In questo senso, il cameo va visto come la volontà di Refn di proiettare sé stesso all’interno di Copenhagen Cowboy tramite un alter ego (cosa che avviene anche con Gosling e Mikkelsen nei rispettivi film).

In conclusione, lo stile di Nicolas Winding Refn si basa sia su un ripudio di ciò che è inattuale – per permettergli di tendere continuamente verso idee inedite – sia su un recupero di quel passato che può essere fonte di ispirazione. Una decostruzione per essere sé stesso al 100% e questa serie TV – di certo lontana dall’essere accessibile a tutti – lo grida a pieni polmoni.

“Io parto sempre da un foglio bianco, senza guide, per guardare le cose da una prospettiva diversa. Mi sforzo di creare grazie all’ignoranza: non metto radici nel passato perché non voglio ristagnare, non voglio essere ripetitivo. Mi autodistruggo per rinascere proiettato sempre verso il futuro” – NWR

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Videogiocatore incallito, cinefilo dalla nascita, attore di teatro e batterista da diversi anni. Adoro approfondire qualsiasi cosa abbia a che fare con l'arte e l'audiovisivo: è difficile fermarmi quando inizio a scrivere o a parlare focosamente di ciò che amo.

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