“Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore: fecemi la divina podestate, la somma sapienza e ‘l primo amore. Dinanzi a me non fuor cose create se non etterne, e io etterno duro. Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate“.
Dopo quattro lunghi anni di attesa, è niente di meno che l’Inferno di Dante ad aprire John Wick 4, nuovo capitolo dell’amata saga action firmata da quel folle chiamato Chad Stahelski e interpretata da un inarrestabile Keanu Reeves. Il film prende il via dalla fine del terzo episodio, Parabellum, che – nonostante resti un prodotto davvero godibile – risulta il più debole della serie, essendo un more of the same delle vicende narrate nelle prime due ottime iterazioni. Il suo finale sospeso, inoltre, lo ha reso un lungometraggio “monco” in disperato bisogno di una conclusione, ed è qui che John Wick: Chapter 4 entra in gioco, offrendo al pubblico un vero gran finale (almeno per quanto riguarda la linea narrativa principale).
Il nostro assassino continua a fuggire dalle grinfie della Gran Tavola dopo la sua scomunica e, senza perdere tempo, uccide uno dei suoi Reggenti (George Georgiou). Questo ennesimo guanto di sfida è la goccia che fa traboccare il vaso. La Tavola infatti prende provvedimenti sguinzagliando il Marchese de Gramont (Bill Skarsgård), un glaciale magnate francese, che a sua volta assolda il temibile killer Caine (Donnie Yen), un vecchio amico del protagonista. Obiettivo: distruggere Wick – sul cui capo pende una taglia di 18 milioni di dollari – ed eliminare chiunque offra aiuto ad uno scomunicato come lui. A complicare le cose è poi un terzo uomo: un cacciatore di taglie solitario e senza nome (Shamier Anderson), accompagnato da un pastore tedesco e una carabina Winchester, che a quanto pare pedina John da anni per ucciderlo.
Quella che viene portata in scena è una guerra fratricida tra gentiluomini dove tutti sono sulla stessa barca – vi è, non a caso, un riferimento al capolavoro di Théodore Géricault La zattera della Medusa – e dove il forte sentimento di fratellanza tra professionisti viene messo a dura prova dalla violenta crociata della Gran Tavola, il cui motto di matrice senecana è “Vivamus, moriendum est“, “Viviamo perché dobbiamo morire”.
Ogni killer, insomma, ha qualcosa da perdere o per cui lottare: Caine – un villain sfaccettato con cui è facile empatizzare – ha la figlia Mia (Aimée Kwan); Koji (un ottimo Hiroyuki Sanada), direttore del Continental di Osaka e nuovo aiutante di John Wick, ha la sua Akira (Rina Sawayama). Torna quindi il tema della vendetta presente nel primo film, in una storia che si muove tra Parigi, Berlino e la già citata Osaka; città in cui il personaggio di Reeves vorrebbe solo trovare la pace, libero dai suoi debiti di sicario. È bene però ricordare che l’ambizione di un uomo non dovrebbe essere più grande del suo valore: il nostro eroe è un Ercole alle prese con un’Idra le cui teste continuano incessantemente a ricrescere. L’unico modo per porre fine alla questione è un duello all’ultimo sangue.
Come se non fosse già abbastanza chiaro, la battaglia al centro di John Wick 4 è infusa di un’inedita sacralità, scelta narrativa sorretta principalmente da due elementi: in primis, un ritorno dell’affascinante e misteriosa setta ortodossa Ruska Roma, la famiglia bielorussa adottiva del protagonista. Essa svolge ancora una volta un ruolo chiave negli eventi e viene dipinta attraverso inquadrature solenni, eccellenti per costruzione, scelta degli ambienti e direzione della fotografia. Quest’ultima è affidata, come sempre, al prolifico Dan Laustsen (La forma dell’acqua, La Fiera delle Illusioni), che colora la pellicola con tinte molto variopinte e contrastate, giocando egregiamente con neon e riflettori, soprattutto durante le risse a suon di katana in Giappone.
Sono poi le musiche ad opera di Tyler Bates (Atomica Bionda, Deadpool 2) e Joel J. Richard a donare al lungometraggio atmosfere avvolgenti e ieratiche, il tutto grazie ad una fusione tra sonorità elettroniche alla Mick Gordon e luminosi cori angelici.
In questo tripudio cromatico e sonoro, come da tradizione, non si lesina mai su coreografie, stunt e cazzottoni. In particolare, questo quarto capitolo ha preso tutto ciò che c’è di buono nei tre episodi precedenti e lo ha ingigantito donandogli freschezza. Al pubblico viene presentata una marea di situazioni diverse in cui vengono sparsi litri di sangue con sperimentazioni e trovate sempre nuove come scontri con archi e frecce, nunchaku, fucili a pompa carichi di proiettili Dragon’s breath e tanto altro. In altre parole, un mix dotato di un’eleganza stilistica eguagliata poche volte nel cinema d’azione moderno. A sorreggere baracca e burattini, un ritmo in continuo crescendo che tiene alta la tensione.
Non mancano strizzate d’occhio a tutti i lungometraggi della saga e scene memorabili di difficile realizzazione, ormai marchio di fabbrica di Stahelski. A tal proposito, è possibile citare il peculiare stile di combattimento di Caine che, da persona cieca, basa interamente le sue offensive sull’uso di un bastone da passeggio. Lodevole in questo senso la grande maestria di un artista marziale come Donnie Yen che, forte della sua esperienza nei film di Ip Man, regala attimi di puro godimento qualitativamente superiori a quanto visto nella vecchia trilogia.
Altri momenti davvero notevoli vedono John e comprimari lottare in una discoteca in cui scorre una gigantesca cascata e due piani sequenza girati in teatro di posa con l’ausilio di un impianto aereo (overhead camera rig in inglese): questi ultimi due frangenti vengono ripresi esclusivamente dall’alto, in un montaggio inusuale e di rara complessità – ma sempre cristallino – che lascia a bocca aperta e riporta alla mente il videogioco cult Hotline Miami. In sintesi: l’uso fantasioso che Chad Stahelski fa della macchina da presa, per certi versi, ridefinisce il genere action nonché il modo di coordinare un blockbuster. È una pratica che si è ritagliata un posto d’onore all’interno del cinema postmoderno e da cui certi autori di kolossal avrebbero tanto da imparare. La serie di John Wick è coesa, coerente e sa reinventarsi all’occasione.
A coronare la storia, un monumentale terzo atto pieno zeppo di avvenimenti che personalmente mi hanno riportato alla mente Deathloop, in quanto caratterizzati da una frenetica corsa contro il tempo verso un finale che, fino all’ultimo, è impossibile prevedere. Un plauso va agli sceneggiatori Shay Hatten (Army of the Dead) e Michael Finch, e al montatore Nathan Orloff (Ghostbusters: Legacy, Samaritan), poiché riescono a mantenere viva l’attenzione in ben 2 ore e 49 minuti di pellicola, tantissime per un prodotto trainato da meri combattimenti. Il rischio era quello di produrre un minestrone di eventi alla rinfusa, ma per fortuna non è stato così.
John Wick 4 è una degna e scenografica conclusione per la parabola dell’assassino più temuto di New York, in quanto mette la parola fine a tutti i nodi narrativi fondamentali. Nonostante ciò, una scena post-credits di difficile interpretazione sconvolge le carte in tavola, senza far comprendere i futuri sviluppi della storia. John Wick 5 è già in lavorazione da tempo e Keanu Reeves ha confermato che continuerà a recitare in altri sequel, finché il pubblico lo vorrà; due affermazioni che mi lasciano dubbioso vista la piega di questa quarta iterazione. Vedremo cosa accadrà.
In ogni caso questa epopea, valorizzando la dimensione spettacolare dell’immagine filmica grazie a un colossale comparto tecnico, ha donato tanto al cinema contemporaneo. Il suo obiettivo principale è stato e sarà trasmettere sensazioni forti, immergendo il pubblico in un bagno di sensazioni che è possibile ricreare solo attraverso una regia funambolica, profondamente autoriale e che sa bene cosa vuol dire osare.
Un ringraziamento speciale a Leone Film Group
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