Ari Aster è sicuramente una delle voci più autorevoli di quella che è considerata la “new wave” del cinema horror contemporaneo, insieme a Robert Eggers (The Witch, The Lighthouse, The Northman) e Jordan Peele (Get Out, Us, Nope). Questi autori infatti hanno riplasmato il genere, riuscendo a farlo riprendere seriamente in considerazione da parte di pubblico e critica, dopo essere stato messo per troppo tempo in cattiva luce nel mainstream hollywoodiano.
Ora, così come Eggers e Peele, che per le loro terze opere si sono spostati dalla purezza dell’horror contaminandolo rispettivamente con l’epica e la fantascienza, anche Aster inserisce nel suo nuovo film Beau ha paura una vena comica e surreale molto marcata, realizzando praticamente una seduta psicanalitica lunga 3 ore.
È molto complesso anche solo provare a riassumere la trama di Beau ha paura, che lo stesso regista in una featurette ha descritto come “una versione ebraica de Il Signore degli Anelli, dove il protagonista però è un uomo di mezza età che deve tornare a casa dalla mamma“. Dopo averlo visto, non posso che concordare con questa folle visione: il film racconta la surreale e personale odissea di Beau (Joaquin Phoenix), che dal semplice assunto di tornare a casa dalla madre (Patti LuPone) per l’anniversario della morte del padre, ci porta nei meandri della sua coscienza, in un mondo che è sempre al limite tra la realtà, il ricordo, il trauma e la fantasia schizoide.
La messa in scena di Aster infatti è sempre volutamente ambigua, non esplicitando mai se quello che stiamo vedendo a schermo sia la realtà o una fantasia di Beau. La versione che penso sia anche più in linea con le tematiche trattate dal film è sicuramente quella che vede il mondo filmico come la visione distorta della realtà che ha il protagonista, intrappolato nella sua paranoia e nel suo senso di colpa atavico. Quest’ultimo è un tratto cardine della sua personalità che lo porta ad avere paura di qualsiasi cosa gli si presenti davanti, pensando che sia sempre colpa sua, per tutto e tutti.
Ari Aster ci ha abituato ad un cinema “del trauma”, che come per le sue due opere precedenti anche qui è un elemento essenziale della narrazione: il rapporto che Beau ha con la madre, con lo scorrere del film, si mostrerà agli occhi dello spettatore sempre più morboso e complesso. Viene ripreso moltissimo della psicopatologia freudiana, a partire dall’ansia di castrazione che però, non essendoci una figura paterna, viene dalla parte materna che in tutti i modi cerca quasi di reprimere la sessualità di Beau. Una repressione che in realtà è una forma di amore perverso, che viene proiettato sul figlio che vorrebbe come sostituto del marito morto, e quindi solo per sé.
Questa frustrazione del bisogno primario che è la pulsione sessuale, non ha fatto altro che generare ansie infinite in un personaggio che Joaquin Phoenix riesce a interpretare magistralmente. In alcuni momenti, nonostante l’età anagrafica e l’aspetto esteriore, sembra davvero di assistere ai comportamenti di un bambino. È l’essere un infante sperduto nel mondo degli adulti che fa percepire a Beau la realtà così pericolosa e ostile, e Aster ce la mostra secondo il suo punto di vista. Il regista crea un mondo che diventa quasi la caricatura di quello che abita il protagonista – dove si vendono armi in bancherelle per la strada, ci sono senzatetto ad ogni angolo, gli assassini sono a piede libero e i condomini lo accusano di disturbare la quiete del palazzo – esaltando ancora di più quelli che sono i problemi della società americana.
Le disavventure di Beau in questa folle caricatura, nonostante il film ci mostri che iniziano con la sua nascita – una bellissima inquadratura dal suo punto di vista all’interno dell’utero materno – partono effettivamente dopo una seduta col suo terapista (Stephen McKinley Henderson), che gli prescrive delle nuove pillole per l’ansia da prendere necessariamente con l’acqua. Questa piccola clausola e l’ansia crescente di terminare i preparativi per tornare dalla madre, innescheranno una serie di coincidenze ed equivoci che gli faranno perdere l’aereo. Anche qui Aster sembra quasi suggerire che le azioni di Beau siano un meccanismo di difesa, un modo inconscio per cercare di rimandare il fatidico incontro.
Il protagonista quindi dovrà inevitabilmente trovare un altro modo per arrivare a casa, soprattutto dopo una chiamata accusatoria della madre che lo farà ancora più sentire in colpa per non riuscire a tornare in tempo. In quella telefonata diviene già chiaro il rapporto tra Beau e sua madre, che oscilla inevitabilmente tra il bisogno d’amore e di cure per quello che è ancora un bimbo spaventato dal mondo, ma allo stesso tempo la consapevolezza che è proprio questa ambiguità di rapporto la causa del suo malessere esistenziale.
Anche da questo punto di vista il film rimane ambiguo e volubile, riuscendo a compiere qualcosa di incredibile: grazie ad una regia dalle finezze tecniche precisissime, Aster trasforma in pochi secondi una scena dall’aspetto comico – che in realtà potrebbe essere benissimo una scena involontariamente comica in un brutto film horror – in qualcosa di terrificante cambiando solamente un dettaglio, come l’angolo di inquadratura, il movimento di un personaggio, o perfino la presenza o assenza di qualcosa in campo.
È come se la percezione che abbiamo della storia di Beau prendesse completamente un’altra piega solo perché ora sappiamo qualcosa in più di lui, che sia anche solo un insignificante dettaglio. Infatti nei tre atti che in realtà son ben scanditi nel film da 3 grandi tagli a nero, la ricostruzione di un ricordo d’infanzia del protagonista e di altre sue memorie saranno la chiave non solo per la ricostruzione della sua identità, ma anche per la costruzione di un grande discorso metacinematografico.
Nel secondo atto, Beau intreccia la sua storia con quella di uno spettacolo teatrale itinerante che si ferma a guardare. Questo episodio della sua “odissea” vuole farci riflettere sulla possibilità di alterare la propria mente e la propria storia personale con qualcosa che vediamo rappresentato, solo perché questo risuona con noi. Non è un caso, infatti, che uno dei principi di questa compagnia teatrale consista nel dare un costume di scena anche agli spettatori, per “diminuire la distanza tra pubblico e attori”.
Siamo anche noi stessi, il pubblico del film, a guardare e cercare di unire i puntini della vita di una persona fittizia, solo perché questa sembra ricordarci qualcuno di familiare, e più ci addentriamo nel racconto più in realtà lo plasmiamo a nostra immagine e somiglianza, perché vediamo riflesso solamente quello che noi decidiamo di vedere. Così la storia si conclude con un finale che sembra citare Lo straniero di Albert Camus, in cui un processo alle intenzioni basato solo su pochi frammenti – visti in modo parziale e che anche noi sappiamo essere falsi – va a definire la vita di Beau, cristallizzandolo in una visione che non è la sua vita, ma quella del giudice (quindi noi spettatori) che l’ha ricostruita e rimessa insieme. Una vita che è sempre stata troppo dipendente dai legami e dai giudizi degli altri, non avendo mai avuto modo di brillare.
Beau ha paura è sicuramente un film sperimentale, una “follia” – così definita dallo stesso Aster – visiva ed emotiva che per 3 ore riesce a tenere incollati allo schermo anche solo per capire come al regista siano venute in mente certe trovate e come sia riuscito a realizzarle. È interessante inoltre pensare che, oltre 12 anni fa, Ari Aster avesse realizzato un corto di 6 minuti, praticamente senza budget, chiamato Beau, che viene ripreso concettualmente e citato in una scena specifica, praticamente identica. È come se il regista avesse ripreso una sensazione dell’epoca e l’avesse rielaborata nel suo stato attuale, così come il film ci chiede di elaborare la storia di Beau, destrutturando e rielaborando quello che per lui era un ricordo del passato.
Aster, grazie ad una produzione importante – dietro di lui c’è sempre la A24 – e un budget di circa 35 milioni di dollari, è riuscito a rimanere fedele al suo stile e alla sua poetica senza snaturarsi, evitando ogni compromesso per un’opera estrema che richiede un’attenzione particolare, anche solo per arrivare fino in fondo. Lo stesso regista si è dichiarato sorpreso che la produzione gli lasciasse completamente carta bianca per realizzare tutto quello che c’è a schermo, e tuttavia gli sarebbe stato impossibile portare a compimento con un budget minore, specialmente per potersi avvalere di grandi collaboratori come Bobby Krlic (già compositore di Midsommar) o un intero studio d’animazione per una singola sequenza animata, oltre che di un cast di spessore.
Beau ha paura è un film che non teme di mostrare la sua vera natura, di farci entrare nella psiche di un uomo disturbato e in cerca di pace, mettendola in scena come se fosse un viaggio nel paese delle meraviglie. Come in ogni avventura che si rispetti, però, non conta la meta ma il viaggio, e quello di Beau è sicuramente da non perdere e da vivere appieno al cinema.
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