Imbarcarsi in un progetto live-action di One Piece è quanto di più stupido si possa fare. Il mondo creato da Eiichiro Oda è popolato da una miriade di personaggi strani, ridicoli e grotteschi, con capacità e poteri altrettanto bizzarri, che è inconcepibile vedere trasposti in carne ed ossa. In più parliamo di uno dei manga più longevi di sempre, con oltre 1000 capitoli all’attivo e ancora lontano dal concludersi, quindi si inizia qualcosa senza sapere se si finirà mai. Un adattamento del genere ha tutte le carte in regola per essere un fallimento totale, specialmente se c’è di mezzo Netflix che in tal senso non si è guadagnata la fiducia degli spettatori nel corso degli anni. D’altra parte bisogna ammettere che lo spirito è quello giusto: in fondo anche imbarcarsi nell’impresa di trovare il One Piece e diventare il Re dei Pirati è a dir poco sconsiderata.
La prima stagione della serie Netflix copre la saga dell’East Blue fino ad Arlong. Si tratta quindi di tutta la parte introduttiva che vede Luffy prendere il mare e trovare i primi compagni della sua ciurma, fino allo scontro con il pirata più temibile del Mare Orientale. Circa 95 capitoli del manga e 44 episodi dell’anime che qui vengono condensati in 8 episodi da un’ora. Una prospettiva di certo non invitante per i fan, ma vi assicuro che un po’ alla volta tutti i timori lasceranno spazio alla curiosità, e poi alla sorpresa. È stato fatto l’impossibile, il One Piece è reale!
La cosa che traspare di più è che una volta tanto (quando invece dovrebbe essere la norma) abbiamo davanti l’adattamento di un manga fatto con completa padronanza del materiale originale. La storia ha subito necessariamente delle modifiche, atte sia da accorciarne i tempi che a renderla più adatta al nuovo medium, ma il risultato finale è di una fedeltà impressionante. Alcune scene vengono riproposte proprio 1:1, ma dove questo non è possibile si è trovato comunque il modo di mantenere intatti i significati, che è la cosa più importante in prodotti di questo tipo, i quali spesso si concentrano solo sull’aspetto visivo (e neanche bene) ignorando appunto il senso dell’opera di partenza.
Anche a livello semplicemente narrativo, cambiano le dinamiche e le motivazioni che portano a determinati momenti chiave, ci sono scene e personaggi riproposti in altro modo, ma alla fine torna tutto. Forse se siete fan di One Piece in un primo momento vi ritroverete a storcere il naso di fronte ad alcune cose, ma quando si arriverà finalmente alla frase o la scena iconica che pensavate non ci sarebbe più stata non potrete fare a meno di sorridere, e stupirvi per il modo ingegnoso con cui il tutto è avvenuto.
Ci sono poi ulteriori aspetti che confermano una scrittura molto più curata rispetto a quella di progetti analoghi. Si è scelto di adattare alcune cose dal manga piuttosto che dall’anime (le due versioni differiscono in alcuni punti), i flashback sono inseriti perfettamente nel flusso del racconto risultando sempre super emozionanti (per chi già conosce la storia, figuriamoci per chi ne è all’oscuro!), e troviamo elementi presi intelligentemente in prestito da saghe successive a quella trattata, che sono effettivamente utili al modo in cui è stata riraccontata la storia e, assieme a diversi easter egg ben contestualizzati, faranno sobbalzare i fan. Inoltre è stato aggiunto qualche dettaglio completamente inedito, che però non stona affatto, ma al contrario si integra armoniosamente al resto offrendo qualcosa di davvero nuovo a chi conosce già tutto a menadito.
Purtroppo non è tutto tesoro di Gold Roger quel che luccica, e nonostante lo sforzo ammirevole nel cercare di racchiudere al meglio quasi tutta la saga dell’East Blue in 8 episodi, qualcosa è stato inevitabilmente sacrificato. Spesso infatti i momenti clou risultano depotenziati in confronto alle versioni originali, non essendoci il tempo di approfondire adeguatamente i personaggi e soprattutto i rapporti tra di loro.
Ne soffrono specialmente i combattimenti, e su tutti quello con Arlong, perché a questo si aggiunge il problema che i protagonisti non si trovano mai realmente in difficoltà negli scontri. Nel manga Luffy e compagni ne danno, ma ne ricevono anche tante, arrivando in certe occasioni a un passo dalla morte prima di guadagnarsi la vittoria; qui invece manca quel tipo di tensione perché si risolve tutto troppo facilmente e ne escono sempre illesi, fatta eccezione per le ferite volute (chi sa, sa).
Poi mi è spiaciuto non vedere un personaggio in particolare data l’importanza che avrà più avanti, infatti mi chiedo come gestiranno il fatto di non averlo introdotto qui se mai riusciranno ad arrivare fino a quel punto con questa serie. Tuttavia credo che un pubblico completamente nuovo a One Piece sarà comunque capace di godersi le cose così come stanno, perché di per sé tutto sommato funzionano, mentre per i fan più accaniti dipende tutto da quanto si è disposti a socchiudere un occhio premiando ciò che è stato fatto di buono.
A tal proposito, mi ha piacevolmente colpito anche il fatto che la serie non abbia subito censure. Non si ha paura di mostrare il sangue, non viene distolto lo sguardo quando una lama affonda nella carne, si usa tranquillamente un linguaggio scurrile quando serve e Sanji fuma. Certo, non è la ciminiera di sempre, ma almeno non gli hanno messo in bocca un lecca-lecca come nella versione di 4Kids. Non sono cose da dare per scontate in questi casi, e penso che in tal senso abbia avuto un peso la stretta supervisione di Oda.
Al di là di sangue e mazzate però One Piece è un’opera fondamentalmente leggera, che fa della risata una sua componente imprescindibile, e sono felice che la serie Netflix sia riuscita a mantenere intatto anche questo aspetto non prendendosi mai troppo sul serio. Mi sono genuinamente divertito nel ritrovare un’atmosfera così sopra le righe e persino grottesca, e ho riso di gusto per le gag idiote che (con tutti i limiti del caso) ho trovato molto fedeli all’originale. Mi chiedo solo quanto chi è del tutto a digiuno di One Piece riuscirà a entrare nell’ottica di questo mondo assurdo, dove un viceammiraglio della marina indossa un cappello a forma di cane e si usano le lumache come telefoni.
Il maggior punto forte di questo adattamento in ogni caso rimane il casting. È incredibile il lavoro che è stato fatto per trovare i migliori attori per ogni parte, sia principale che secondaria, puntando al risultato finale senza voler per forza coinvolgere delle star. Per la quasi totalità si tratta di volti poco noti, e viene da chiedersi come abbiano fatto a trovarne alcuni così somiglianti ai personaggi originali: sembrano essersi materializzati direttamente dalle pagine del manga.
Al di là dell’aspetto poi ognuno ha dato il meglio di sé nel proprio ruolo, a partire dai protagonisti: Iñaki Godoy, Mackenyu, Emily Rudd, Jacob Romero Gibson e Taz Skylar riescono a cogliere rispettivamente l’essenza di Luffy, Zoro, Nami, Usopp e Sanji facendola propria, portandone sullo schermo una versione fedele ma al contempo personale. La chimica tra di loro è fantastica, si vede che ci credono tantissimo, e riescono ad essere convincenti. Una menzione d’onore va a Jeff Ward, che è un Buggy straordinario.
La conferma definitiva su quanto sia impressionante il cast arriva guardando la serie con l’audio giapponese: i doppiatori sono gli stessi dell’anime e le loro voci aderiscono perfettamente agli attori. Se siete fan di One Piece la versione in giapponese è consigliabile soprattutto per l’enfasi unica data alle mosse, ma la serie è godibilissima anche in lingua originale (inglese) e in italiano. Nella nostra lingua è stato fatto un gran bel lavoro sia con il doppiaggio che con l’adattamento.
Per concludere il discorso cast bisogna sottolineare che Mackenyu e Taz Skylar hanno anche compiuto da soli gran parte degli stunt nelle scene di combattimento: il primo ha già dimostrato di destreggiarsi bene con la spada in Rurouni Kenshin: The Final (basato sul manga di Nobuhiro Watsuki e disponibile su Netflix), mentre il secondo si è allenato come un pazzo a tirare calci appositamente per interpretare Sanji (prendendo al contempo lezioni di cucina). I combattimenti con loro sono peraltro quelli che rendono meglio, mentre il resto delle coreografie sono un po’ altalenanti, e soprattutto quelle di Luffy devono spesso scendere a patti con i suoi poteri e degli effetti visivi non in grado di gestirli benissimo.
Infatti dove si può lo si fa muovere velocemente così da mascherare l’effetto brutto e straniante che si ha nelle scene più statiche, come quella del pugno contro Alvida che si vedeva già nel primo teaser trailer. Per la maggior parte del tempo però sono la regia e la fotografia ad ovviare con alcuni espedienti ai problemi dei VFX, ad esempio facendo allungare Luffy off-screen o lasciando prevalentemente il buio quando la CGI abbonda, come nel caso del combattimento con Buggy, anche se non sempre basta. Ci sono altri casi invece in cui gli effetti sono utilizzati molto meglio, basti pensare ai gabbiani postini.
Il live-action di One Piece tuttavia vanta anche un cospicuo lavoro artigianale, specie per i set. Infatti visto che tanto il progetto era già qualcosa di folle, hanno deciso di spingere l’acceleratore fino in fondo e costruire davvero navi e villaggi. Vedere ambientazioni come il Baratie portate concretamente in vita è meraviglioso e fa decisamente la differenza, ma il prezzo da pagare è che molte volte ci si muove in spazi più ristretti e chiusi rispetto al manga.
Ottimo poi il lavoro di make-up, che si serve ampiamente del trucco prostetico per la realizzazione degli uomini-pesce, rendendoli uncanny proprio come dovrebbero essere. In quanto ai costumi, un plauso va alla fedeltà con cui sono stati creati, prendendo alcuni modelli persino dalle illustrazioni che fanno da cover ai capitoli, tuttavia il temuto “effetto cosplay” in parte c’è, essendo sempre tutto troppo pulito e stirato come se gli fosse stato appena tolto il cellophane.
Concludo con una nota sulla colonna sonora, perché per quanto non sia affatto male di per sé (c’è persino un bellissimo brano chiamato My Sails Are Set, cantato da Aurora e dedicato a Nami) trovo non aderisca bene al peculiare contesto di One Piece, essendo composta perlopiù da pezzi folk che richiamano i pirati classici e pezzi più epici sulla falsariga di Pirati dei Caraibi. Un brividino scatta davvero solo quando in un paio di punti parte una versione orchestrale di We Are, e immagino che effetto avrebbero fatto gli altri temi classici dell’anime ad esempio nei combattimenti.
Faccio ancora fatica a crederci, ma questo live-action di One Piece mi ha sinceramente divertito ed emozionato. È vero che non è difficile superare delle aspettative già sotto terra (sebbene si possa sempre scavare), ma qui si va oltre adattando molto bene qualcosa che non era adattabile, e facendolo con una competenza rara per il materiale trattato, senza rovinarne il senso. Per giunta su Netflix, invalidando almeno per questa volta il meme della “Netflix adaptation”.
Se all’inizio si mantiene giustamente una certa diffidenza, episodio dopo episodio le cose si fanno sempre più avvincenti e ci si ritrova a seguire l’alba delle avventure di Luffy e la sua ciurma come fosse la prima volta. Magari per molti sarà davvero la prima, e c’è il potenziale affinché una parte di questi si interessi al manga o l’anime scoprendo quanto sia grande in realtà la storia vista qui. Se poi Netflix deciderà di portare avanti la serie e giungere nella Grand Line si troverà davanti a nuove importanti sfide, perché da lì si farà man mano tutto più strano e inadattabile. Solo che questa prospettiva ora non mi provoca una smorfia di disgusto, ma un sorriso intrigato.
Un ringraziamento speciale a Netflix
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