Sin dal suo annuncio, Ferrari di Michael Mann (Heat – La sfida, Collateral, Miami Vice) ha destato l’interesse di due tipi di pubblico: gli appassionati di sport e motori e i fan di uno dei grandi maestri del genere thriller. Chi conosce il regista quasi sicuramente ricorderà il suo Alì del 2001, ottimo biopic dedicato al grande Muhammad Ali; le aspettative per questo nuovo film biografico erano dunque abbastanza alte.
Molto tempo prima di girare, Mann ha avuto l’opportunità di documentarsi approfonditamente sulla vita di Enzo Ferrari, visitando la sua Modena, incontrando i suoi parenti e – cosa più importante – interagendo con il figlio Piero. Insomma, il cineasta statunitense si è preparato il più possibile per raccontare “l’arguzia pungente del Saggio di Maranello, la devastante perdita del figlio, le sfuriate teatrali, il bisogno di un rifugio emotivo, la monumentale scommessa su una singola gara e la lotta per la sopravvivenza“. Tutti elementi ricostruiti nel corso di un anno cruciale per il celebre imprenditore: il 1957.
Il film prende piede a marzo e vede Enzo Ferrari (Adam Driver) immerso in una profonda crisi familiare ed economica, nonostante il suo cognome goda di un posto d’onore nella storia industriale italiana. Sull’orlo della bancarotta, viene pressato dalla moglie Laura (Penélope Cruz) – che pare non amarlo più – e dai colleghi affinché riprenda le redini della sua azienda. In tutto ciò, l’uomo è tormentato dalla morte del primogenito Dino, avvenuta l’anno prima. Non impiega molto a capire che l’unico modo per riscattare il suo nome è vincere la Mille Miglia, affidandosi ai suoi piloti migliori.
Partecipare alla gara non basta di certo, bisogna infrangere ogni record di velocità. Per questo motivo, Enzo convoca Eugenio Castellotti per effettuare delle prove all’Aerautodromo di Modena e strappare a Jean Behra (Derek Hill) – pilota per la Maserati – il miglior tempo del percorso. A causa di una curva sbagliata, tuttavia, lo sportivo trova la morte a seguito di un tremendo schianto a duecento chilometri orari. Con freddezza, l’imprenditore sostituisce l’amico deceduto con Alfonso de Portago (Gabriel Leone), stella emergente delle corse automobilistiche che entra subito a far parte della Scuderia Ferrari in preparazione per l’importante sfida.
In questa situazione tesa in cui Enzo è chiamato a elaborare molteplici lutti, si inserisce un’altra figura per lui destabilizzante: Lina Lardi (Shailene Woodley), la sua amante conosciuta in guerra che desidera averlo con lei per accudire il figlio illegittimo Piero. Un mix assai delicato che Michael Mann però riesce a bilanciare bene.
Per Enzo Ferrari, le corse sono “una terribile gioia, una passione mortale“. Una frase che fa comprendere quanto questo sport fosse diverso negli anni Cinquanta: in passato i piloti morivano spesso e in maniera tragica; le mogli e le fidanzate non potevano fare altro che leggere le loro lettere d’addio, scritte accoratamente prima di ogni competizione. Gli appassionati di Formula Uno, non a caso, sanno benissimo perché la Mille Miglia del 1957 è stata anche l’ultima.
A questo proposito, l’evento ha un peso notevole nell’impianto drammatico del film e riunisce alcune delle più famose figure sportive del secolo scorso come Piero Taruffi (Patrick Dempsey) – detto “la volpe argentata” – Peter Collins (Jack O’Connell) e Wolfgang von Trips (Wyatt Carnel). Uomini che si scontrano con un dilemma: qual è la differenza tra l’essere dei semplici concorrenti e gareggiare come dei veri sportivi?
C’è qualcosa di sacro in una disciplina profana come quella delle corse automobilistiche. Una visione evidenziata da una sequenza all’inizio del lungometraggio in cui, grazie a uno splendido montaggio parallelo che ricorda l’indimenticabile scena del battesimo ne Il padrino di Coppola, si assiste a una messa dove Gesù viene paragonato a un operaio metalmeccanico di Maranello: così come Dio guida le nostre vite, gli operai plasmano il metallo costruendo un mondo moderno e industrializzato. La potenza dei motori non è altro che l’energia che lo muove.
Nel 1957 l’Italia trainava il settore dell’ingegneria e questo merito ricade sulle spalle di Enzo Ferrari che, accusato di glissare sui numerosi decessi che affliggono la sua scuderia, è come “un Saturno che divora i suoi figli“. È un industriale che desidera morbosamente il controllo totale della sua azienda, sfida la morte senza paura e rifiuta accordi con la Fiat di Gianni Agnelli (Tommaso Basili) e con la Ford. La sua società non si vende all’estero per banali progetti commerciali: le Ferrari sono auto da corsa e tali devono rimanere.
La sceneggiatura melodrammatica – quasi shakespeariana – scritta da Mann stesso insieme a Troy Kennedy Martin, pone l’uomo in una luce più negativa di quanto si potrebbe pensare: non viene ciecamente venerato, bensì descritto con tono accusatorio e misurata ammirazione come hanno fatto i colleghi nel corso della sua vita. Un tono riscontrabile anche nel libro da cui la pellicola è tratta, ovvero Enzo Ferrari: The Man and the Machine, scritto dal giornalista Brock Yates.
Il commendatore è una persona dedita al lavoro e poco compassionevole; spesso granitica e mossa da un forte arrivismo. Gli anni Cinquanta sono per lui caotici: fa di tutto per tutelare la sua eredità – spartita equamente con la moglie – ma non si cura dei suoi cari. Il talentuoso Adam Driver (Annette, The Last Duel, 65 – Fuga dalla Terra), prevedibilmente, riesce a portarlo in scena con la cupezza e la mimica giuste (le sterili critiche mosse da Pierfrancesco Favino durante la Mostra del Cinema di Venezia sono quindi del tutto infondate).
Vestire i panni di una figura leggendaria come quella di Mr. Ferrari non è facile: è un dirigente camaleontico, un calcolatore sopraffino, ma lontano dall’essere invincibile. Un personaggio del genere non può fare a meno di scontrarsi con la consorte Laura, un’ottima co-protagonista femminile, tenace e statuaria. Penélope Cruz (Assassinio sull’Orient Express, Madres Paralelas) offre una buona interpretazione e si trova a suo agio nel mostrare al pubblico una donna sofferente che sa tenere la testa alta di fronte al marito fedifrago.
A fronte di prove attoriali di buon livello, la rinomata perizia tecnica di Michael Mann è però il fiore all’occhiello di questo biopic, specialmente per quanto riguarda il roboante sound design, perfetto nel restituire il fragore dei motori. Uno splendido lavoro, curato da Andy Nelson (La La Land, The Batman) e Tony Lamberti (I Mitchell contro le macchine, Spider-Man: No Way Home), che deve essere apprezzato tassativamente in sala (chi ha visto Top Gun: Maverick sa bene di cosa parlo). In questo caso, gli effetti sonori spiccano molto di più rispetto alle musiche di Daniel Pemberton (Enola Holmes, Omicidio nel West End, Amsterdam) che volutamente si mantengono “in disparte” per non romanticizzare eccessivamente delle vicende da osservare con il giusto distacco.
La regia di Mann fa un uso molto interessante di primissimi piani, particolari e dettagli. I volti sudati e sporchi dei piloti, le gomme che stridono, le scintillanti parti meccaniche delle auto si fondono nel montaggio sempre cristallino di Pietro Scalia (Alien: Covenant, Solo: A Star Wars Story) e immergono a dovere nella frenesia della Mille Miglia. Una gara all’ultimo sorpasso che è un piacere da seguire, lasciandosi trasportare dal senso della velocità e del pericolo che buca lo schermo.
Il tutto è coronato dalla fotografia caldissima di Erik Messerschmidt (Ant-Man, Mank), bruciante come la benzina. Un plauso va anche alla ricostruzione storica curata dal reparto scenografico capitanato da Maria Djurkovic (The Imitation Game) che è riuscito a portare in scena automobili intramontabili come la Ferrari 315 S di Taruffi e la 335 S di de Portago (gioiellini che Adam Driver, sul set, non ha potuto sfiorare nemmeno con un dito).
In conclusione, ci si trova davanti a un biopic quadrato e asciutto che rispecchia in pieno lo stile di Mann. Peccato per un ritmo altalenante che, proprio per colpa di questa asciuttezza tipica del regista, questa volta non riesce sempre a tenere alta la tensione come ci si aspetterebbe. Nonostante ciò, il cineasta statunitense offre agli spettatori una storia appassionante che delinea precisamente le due facce della Scuderia di Maranello. Da un lato c’è la celebrazione dell’ingegneria italiana, dall’altro la condanna agli uomini troppo ambiziosi che perdono la loro umanità in favore dei motori. La realtà è sempre grigia.
Questa è un’opera impreziosita da una precisione chirurgica che coglie Enzo Ferrari in un momento storico di grande debolezza e fragilità, proprio mentre è sul punto di crollare, dipingendo un quadro ben poco celebrativo dell’ex-pilota. Un’analisi distaccata dell’uomo, un’ode poetica all’industria modenese.
Un finale stranamente anticlimatico chiude questa amara epopea che, forse, non merita un lieto fine. Ogni appassionato di Formula Uno e di storia italiana dovrebbe vedere questo film, essendo uno studio minuzioso di un mito. Un lungometraggio crudo e dinamico capace di rapire anche chi i motori li ha sempre disdegnati.
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