Dieci anni dopo il controverso Under the Skin, il regista inglese Jonahan Glazer torna dietro la macchina da presa per realizzare un film tratto molto liberamente da La zona d’interesse, romanzo di Martin Amis da cui, oltre al titolo, riprende solamente una delle premesse: il focus sulla vita di coppia di Rudolf Höss (Christian Friedel), ufficiale delle SS al comando di Auschwitz, e sua moglie Hedwig Höss (Sandra Hüller), che nel 1943 cercano di vivere una vita felice con i cinque figli, nella loro casa costruita esattamente fuori le mura del lager nazista.
La storia seguirà quindi questa famiglia “normale” nella costruzione del loro angolo di paradiso, una zona d’interesse limitata alla propria bolla personale e completamente avulsa a qualsiasi tipo di realtà esterna. La pellicola di Glazer è stata premiata a Cannes 76 con il Gran Prix Speciale della Giuria ed è ora candidata a 5 Premi Oscar (Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Sceneggiatura Non Originale, Miglior Film Internazionale e Miglior Sonoro).
Il film inizia con qualche minuto di nero, accompagnato dalla colonna sonora funebre e disturbante di Mica Levi, stabilendo subito il rapporto importantissimo che l’opera detiene con il sonoro, facendoci concentrare solamente su di esso. Per tutto il film, infatti, saranno incessanti i suoni di morte, disperazione e guerra provenienti dal campo di concentramento di Auschwitz. Questo elemento è l’unico con cui gli orrori del lager riescono a farsi strada verso la famiglia di Höss e lo spettatore, separati altrimenti dall’enorme cinta muraria del complesso, che esclude qualsiasi tipo di sguardo possa o voglia cercare di penetrarvi relegandolo all’esterno. Questa riduzione del campo, che come già preventivato tange sia gli spettatori che i personaggi in scena, porta inevitabilmente alla graduale desensibilizzazione verso qualsiasi cosa non sia la propria zona d’interesse, così che anche i suoni terrificanti di un campo di sterminio a pieno regime diventino per tutti rumore bianco.
Glazer è sempre stato un regista estremamente consapevole della macchina da presa e di cosa il suo sguardo comportasse, e questo si può notare già a partire dai suoi videoclip, in cui questo elemento è sempre preponderante, come Karma Police dei Radiohead, Virtual Insanity di Jamiroquai o Karmacoma dei Massive Attack. In questo caso, insieme al direttore della fotografia Łukasz Żal (che ha lavorato anche a Ida e Cold War di Pawlikowski, e Sto pensando di finirla qui di Kaufman), il regista sceglie consapevolmente di mantenere sempre la macchina stabile e statica, con gli unici (pochi) movimenti presenti su carrello, utilizzando inoltre 10 macchine da presa collegate in contemporanea e nascoste il più possibile, senza praticamente nessun membro della troupe sul set e (quasi) nessun tipo di attrezzatura cinematografica per modificare l’illuminazione.
Questo approccio da “Grande Fratello” ha consentito una maggiore immedesimazione degli attori e, soprattutto, la ripresa di un ambiente praticamente naturale, in cui la finzione cinematografica si è avvicinata il più possibile alla realtà permettendo movimenti e comportamenti liberi, non facendo percepire la location come un set cinematografico ma piuttosto come un enorme gioco di ruolo dal vivo, alla stregua dell’esperimento cinematografico DAU di Ilya Khrzhanovsky.
Questa consapevole rimozione di tutto ciò che sia esterno – il lager dalla vita dei protagonisti, il sistema-cinema dagli attori – come per il sonoro contribuisce considerevolmente ad alimentare un circolo vizioso di desensibilizzazione all’esterno, e il conseguente autoconvincimento della propria realtà come l’unica esistente, abbandonando totalmente la relazione con gli altri in favore di un volontario isolamento. Questa tematica, oltre a risuonare fortemente con il famoso saggio di Hannah Arendt La banalità del male, viene declinata in un modo che è assolutamente descrittivo dei tempi che stiamo vivendo, nonostante la lontana ambientazione della vicenda.
Tramite i telegiornali prima, e i social media ora, siamo costantemente sotto l’influsso di notizie terribili da tutto il mondo, che ogni giorno colonizzano una parte della nostra mente fino a diventare solo un leggero rumore di fondo. Negli ultimi tempi non è raro assistere all’utilizzo consapevole di fake news o modalità di comunicazione discutibili con il solo obiettivo di generale engagement, polarizzando in modo estremo le masse, che tramite questi comportamenti vengono desensibilizzate a determinate tematiche, arrivando spesso anche a odiarle. Così facendo si rimane sempre e solo nella propria bolla personale, ricercando un’atarassia impossibile alla condizione umana. I social network poi contribuiscono ad alimentare questa visione di realtà auto-isolante, mostrandoci un esterno filtrato, un muro di cinta virtuale simile a quello del lager, che però ci fa arrivare solo quello che noi vogliamo vedere, permettendoci di eliminare – o quantomeno, sorvolare – qualsiasi stimolo non di nostro gradimento, lasciandoli lì, in sottofondo, ma facendo crescere a dismisura un inconscio traumatico che viene gradualmente rimosso e mai affrontato.
La sovraesposizione a qualsiasi orrore con la possibilità di annullarlo senza conseguenze per l’individuo è presente anche in una delle scene cruciali del film, a pochi minuti dalla fine, in cui dalla finzione cinematografica ci si sposta nella realtà vera e tangibile, esplicitando tramite pochi gesti e poche inquadrature tutto il discorso fatto fin qui. Così il singolo gesto di spolverare diventa una meccanicità lavorativa senza totale consapevolezza sulle proprie azioni, alla stregua di quelle compiute dalle SS, e che tutti i giorni compiamo anche noi essendo, come loro, in un sistema che cancella qualsiasi facoltà di pensiero in favore dell’efficienza lavorativa.
Non a caso, le poche immagini che nel film cambiano punto di vista rispetto a quello della famiglia Höss vengono presentate al negativo, caratterizzandole come una palese manipolazione della realtà. Non sono immagini naturali come quelle della casa, dove tutti sono schiacciati dal contesto sociale e si muovono inconsapevolmente, ma sono frutto di un’azione umana voluta e consapevole, rivoluzionaria nei confronti della società vigente, e proprio per questo artificiale: è l’azione di una persona che agisce attivamente nel mondo e non vi soccombe passivamente. Glazer in questo senso ci ha consegnato un’opera totale, una riflessione sul più grande trauma della storia moderna – che, cinematograficamente parlando, soffre di un sovrautilizzo che ne ha causato il disinteresse generale – estendibile non solo al mondo contemporaneo, ma proprio ad una condizione umana universale.
Senza patetismi o drammatizzazioni forzate, La zona d’interesse è probabilmente, dopo Notte e nebbia di Alain Resnais, il più importante film sull’Olocausto mai concepito, in cui la brutalità e l’orrore delle azioni arrivano in modo sottile e non detto, dove lo sguardo di noi spettatori si fonde a quello dei protagonisti, facendoci proprio per questo disgustare della nostra natura. Quel briciolo di speranza per un cambiamento, anche se flebile, va poi costruito di nascosto, al negativo, da persone che sembrano non avere voce e che come nel film, non potendo gridare il loro dolore, lo fanno passare sottotraccia, comprensibile solo a pochi (come sarà comprensibile solo per noi spettatori e non per i personaggi), nella speranza di costruire un futuro migliore.
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